Uliveti pugliesi come cimiteri gotici, santuari salentini che respirano in mezzo ad alberi da frutto scheletrici, come le case delle streghe nei boschi delle fiabe: i grandi scrittori demoliscono i luoghi noti e ce li ricostruiscono davanti agli occhi con forme tutte nuove, tutte loro, reinventando atmosfere che poi sono la trascrizione del modo unico e irripetibile con cui quello specifico punto del mondo si è offerto al loro sguardo.

E proprio questo fa Andrea Donaera, scrittore e collaboratore di Domani, con la sua Gallipoli in Lei che non tocca mai terra (Nn editore), una “Twin Peaks mediterranea”, “dove non ce n’è uno normale, tutti sono malati, rotti dentro”: dopo il folgorante esordio di Io sono la bestia, l’autore trentaduenne ci riporta nella sua terra con una storia di (presunte) possessioni demoniache ed evidenti abrasioni della mente individuale e collettiva, distorsioni generate dal desiderio e dall’amore, dalla luce dell’attrazione e dalla fede, e per questo più che mai compromettenti, disturbanti.

Parlarle

Al centro della seconda prova in prosa di Donaera sta una bella addormentata dalle “dita quasi verdi”, una ragazza in stato vegetativo, Miriam, il cui nome allude esplicitamente a un tornado e implicitamente alle Scritture, finita in coma dopo essere stata investita da un’auto, di notte, e un ragazzo, Andrea, proprio Andrea Donaera (ma la posa della narrazione autobiografica è assunta solo in via sperimentale, un “facciamo che ero” dei giochi dei bambini, riferisce l’autore).

Il protagonista, che ha il padre suicida e la madre “cadavere indecomposto”, tutti i giorni va al capezzale di Miriam – una specie di motore quasi immobile del racconto – e le parla, le parla, non smette mai di parlarle, nel tentativo indefesso di riportarla nel mondo dei vivi. Prima dell’incidente i due hanno passato un’unica notte insieme, goffa e travagliata, eppure Andrea non si dà pace, solo con lei sente di poter essere intero, solo per lei vuole continuare a vivere. Andrea le parla e Miriam le risponde, o almeno di questo è convinto.

Un dramma spirituale

Un dialogo che tiene insieme mondi, livelli di coscienza, e che è minacciato dal grande antagonista del romanzo: un prete esorcista, papa Nanni, di cui Andrea è morboso seguace. Con la sua scopa di saggina benedetta, il forsennato tamburello e i provvidenziali calici di vino santo che alterano le coscienze dei suoi ospiti, l’uomo si oppone furiosamente al legame tra i due, cogliendo in Miriam i segni del maligno. Attorno a queste tre figure appaiono e scompaiono i genitori della ragazza in coma, il padre sindaco e la madre all’apparenza cinica e sprezzante, e soprattutto il ricordo onnipresente della zia della ragazza, morta di parto a diciott’anni, e di cui Miriam porta il nome.

Di agnizione in agnizione, tra esorcismi di mafiosi e “tarantate”, maledizioni est europee e menta che brucia per purificare invano, la tragedia allestita da Donaera incalza sospinta dall’ossessione amorosa e devozionale, in un dramma spirituale lungo una sola settimana che insiste sul nervo poetico dell’autore: serve molta immaginazione per spingersi nell’abisso dell’amore troppo grande per lasciare in vita, per ammettere ciò che diventiamo, o potremmo diventare, sotto il giogo del delirio del cuore.

Linguaggio che divide

L’amore, al di là di ciò che vorrebbero romanticismi ed edulcorate narrazioni popolari, sa rivelarsi il punto in cui convergono il massimo del bene e il massimo del male, ha in sé una carica divorante, micidiale: l’amore talvolta è in antitesi con la sopravvivenza. E Donaera si serve della potenza immaginifica della lingua per arrivare a quel fondo di mistero e dolore che raramente ci concediamo di guardare: «Amare qualcuno come io amo te è una roba violenta: è un accanimento che ti esclude, lo so, è un ossessionarsi basato su niente se non su me stesso».

Il linguaggio è il grande protagonista di questo libro, il linguaggio che divide, scandisce gerarchie – padre Nanni che “parla bene”, che usa l’eloquio per smarcarsi dalla plebe e irretire i fedeli – ma che diventa anche fulcro stilistico e di trama. Lei che non tocca mai terra è un romanzo folk-metal corale, tutto spiritato da voci diverse, più letterarie o più prosaiche, una galleria di toni, posture e inflessioni che si susseguono in un saliscendi dei registri che Donaera gestisce con talento istrionico, cangiante, gusto per la mimesi e senso del ritmo.

Usare le parole

Alle voci di Andrea, dei genitori di Miriam e dell’amica Gabry, si alternano gli inserti lirici in cui a prendere parola è la coscienza obliata della stessa Miriam, ragazza in disgregazione, dai pezzi che fluttuano, si riavvicinano per poi di nuovo disperdersi “in un mare di nulla dove non si tocca”. Una lingua del sonno o del sogno che contribuisce a generare un testo polimorfo: prosa, versi, dialetto, sceneggiatura, trascrizione onirica, testo di canzone, il romanzo lampeggia come un intarsio sperimentale che non esclude mai il lettore.

Romanzo di linguaggio dicevamo, anche attraverso l’espediente narrativo delle prescrizioni mediche, talking cure, con le quali i dottori invitano amici e parenti di Miriam a tentare di riportarla alla vita cosciente. Ed ecco allora che i personaggi, presi di mira dagli eventi e da sé stessi, per provare a salvarsi si parlano – davvero, idealmente o telepaticamente – si raccontano la vita e i suoi assedi, la districano a suon di scene e parole. Il passaggio, lo scambio di frammenti dell’esperienza sembra allora l’unico farmaco possibile: i rapporti sono malati o minati dal fraintendimento, tutto è perduto, dunque cosa resta?

Per questi personaggi sembra restare soprattutto la scommessa delle parole, della lingua, anche quando questa si inoltra verso l’orrore, lo strapiombo del senso. Lei che non tocca mai terra è un libro sulla fiducia nella letteratura, sulla possibilità di trovare frammenti di valore ovunque, grazie allo specifico letterario, come vibra nella promessa che Andrea più volte rinnova a Miriam: «Con le parole prenderò bene la mira».

Amori inconciliabili

Il sud delle ricerche di Ernesto De Martino in questa storia scandisce un paesaggio spirituale in cui la magia non si capisce se è ipersensibilità, trauma o patologia, a predominare è il vuoto, la morte di Dio: la fede è al massimo un’ossessione amorale, un fuoco distorto e corruttore, che sconvolge le menti e i corpi.

Un romanzo che porta la letteratura dove null’altro sembra funzionare: Andrea ama Miriam ma ama anche il prete esorcista che sfoggia il suo odio rovente verso questo legame.

Donaera ha il talento per il racconto degli amori inconciliabili, di quelle parti di noi che entrano in collisione, si elidono a vicenda, e a cui talvolta tentiamo disperatamente di fare da collante, o cardine, subendo il carico della lacerante antitesi di forze dissenzienti. I doppi nodi dell’esperienza, il misto di bene e male, protezione e oppressione, condizione di vittima e piacere sadico risplendono qui come la materia indicibile che forse solo la letteratura sa accogliere, che si addensano in questa che è anche una favola nera sulla famiglia, dato che i legami familiari si prestano benissimo per custodire il male più male che c’è. Debolezza e traumi spesso trovano proprio nelle relazioni primarie gli scenari perfetti per implodere o esplodere, portandosi appresso intere vite o persino comunità.

L’Ombra

Dolori che gravano «quanto il peso della Terra», tragedie che «servono per capire dove vogliamo stare e con chi»: le opere di Andrea Donaera forse ruotano sempre attorno all’archetipo junghiano dell’Ombra, quello scantinato in cui, sin dall’infanzia, impariamo a relegare parti di noi sgradite, dolorose agli altri. La relazione – che pure per molti aspetti protegge, cura, alleva – è il primo praticantato di violenza, e di violenza su noi stessi. È attraverso la repressione delle nostre parti sgradite agli altri che, crescendo, restiamo amputati e sospesi sul fondo oscuro e proibito di ciò che non si può essere. Tutto il romanzo, così come già era in Io sono la bestia, è costruito come un’unica ferita che trova molti canali per manifestarsi e i personaggi non sono che spettri, anime in pena che vorticano attorno ai lembi di questo taglio particolare e insieme universale.

A poco a poco questa storia circoscritta infatti si dilata e diventa il dramma dei drammi, il dramma originario che coincide col tentativo comune di salvarsi, e non da soli, con la ricerca disperata di una condivisione, di una voce che risponda al soliloquio primigenio in cui tutti ci dibattiamo. Miriam assume così il ruolo di oggetto d’amore per antonomasia, indifendibile, trascendente, tutto e solo mistero, un mistero che a poco a poco si dipana per lasciar posto a qualcosa che è sempre più spaventoso.

Contro ogni romanticismo o retorica questo racconto sull’amore fuori scala, senza proporzione o moderazione, affonda lo sguardo nelle tenebre dell’amore in purezza, e ci ricorda la necessità di attraversare, quantomeno con la letteratura, il male, perché lì si annidano segreti non disponibili altrove sulle nostre trasfigurazioni possibili.

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