A sei anni – eravamo a metà degli anni Ottanta – vidi una ragazza che tirava una poltrona in faccia a un ragazzo, dimostrando una forza che, mi era stato detto, era tipica del maschio, il quale era però appallottolato in un angolo e le prendeva di brutto. Il giorno dopo, a scuola, mentre io e gli altri bambini facevamo un gran baccano, trattenni il respiro credendo che suor Giorgia, dopo averci urlato di stare zitti, avrebbe sollevato la cattedra e lanciatacela addosso. «Ma queste cose succedono solo nei cartoni», commentò sottovoce la mia compagna, dimostrando una sagacia doppiamente pungente. Non solo la scena a cui avevo assistito era effettivamente avvenuta in un episodio del cartone animato Lamù, ma la mia previsione era anche stata smascherata come scemenza. Risposi seccamente «sì lo so», ma in realtà non ne sapevo nulla, e per un po’ continuai a tenere d’occhio quali pezzi di arredamento fossero a portata di mano di una donna incazzata perché non credevo più che la forza costituisse un differenziale fra i sessi.

Una seconda folgorazione è avvenuta un paio d’anni dopo, guardando uno dei primi episodi di un’altra serie giapponese, I cavalieri dello zodiaco, dove i lottatori del titolo si sfidavano in un torneo tipo wrestling davanti a un pubblico da stadio. Tale pubblico non andò in visibilio né all’arrivo sul ring del vichingo biondo né per quello dell’energumeno di turno, ma per l’efebico Andromeda, quello che cercava di evitare il combattimento perché la violenza non porta a niente, ma per cui le ragazze avrebbero fatto a cazzotti. Mi guardai attorno per accertarmi di essere nel salotto di casa mia, circondato da oggetti familiari. Non avevo mai visto un personaggio effemminato che non solo non fosse deriso, ma per giunta esaltato come guerriero. Mi sono fatto il segno della croce col telecomando e ho scelto Andromeda come angelo custode per tutta la vita.

Educazione di genere

Questi due aneddoti servono a introdurre l’idea, ancora trascurata, che i cartoni animati giapponesi (anime) hanno rivestito un’importanza fondamentale nella formazione identitaria di una generazione d’italiani. Anche solo facendo un calcolo sommario delle ore passate a guardarli, direi che hanno costituito un quarto della mia educazione, quella che non proveniva da scuola, famiglia, o chiesa. E non considero nemmeno il livello d’attenzione, visto che mi ricordo ancora delle loro invenzioni grafiche, dei dialoghi e di migliaia di personaggi, mentre non mi rammento nemmeno la copertina, figuriamoci il titolo, del sussidiario delle medie.

Per comprendere come sia stato possibile, mi rivolgo a un esperto, il sociologo Marco Pellitteri, professore associato di media e comunicazione presso la Xi’an Jiaotong – Liverpool University di Suzhou e autore di una storia dell’animazione giapponese in Italia, Mazinga Nostalgia (Tunué, 2018, 4ta ed.).

Pellitteri mi spiega che all’inizio degli anni Ottanta la televisione italiana, caso unico in Europa, contava quasi 400 reti private, palinsesti che andavano riempiti, meglio se con programmi a prezzi stracciati come gli anime. (Infatti, io vedevo Lamù e I cavalieri su reti locali). I prezzi erano bassi perché il Giappone era, ed è ancora, un mercato autosufficiente in materia di animazione: non aveva bisogno di esportarla. E gli italiani li compravano in grandi quantità sperando che alcuni avessero lo stesso successo delle prime serie, come Atlas Ufo Robot (passato sulla Rai dal 1978), che raggiunse picchi di share ipergalattici. La mia formazione e quella di tanti italiani è stata determinata dal liberalismo televisivo, nonché, per fortuna, anche da una certa pigrizia delle emittenti italiane.

Tv italo-giapponese

In Italia, infatti, gli anime venivano trasmessi senza nessuna distinzione fra prodotti per bambini (kodomo, come le peripezie del gatto-robot Doraemon), ragazzi (shōnen) o ragazze (shōjo). La tv passava, uno dopo l’altro, cartoni sul calcio (Holly e Benji), su una bambina che si trasformava in cantante pop con tacco e ombretto (l’incantevole Creamy), o ancora serie come Sandy dai mille colori, che aveva come protagonista la figlia di fiorai in grado di disegnare nell’aria oggetti che diventano reali (un tesoro da riscoprire come pubblicità della stampa 3D, sviluppata in Giappone proprio in quegli anni).

Non mi importava se stessi guardando storie per maschi o femmine. Piuttosto, gli anime mi entusiasmavano perché dimostravano che ogni tipo di bambino poteva avere un impatto sul mondo. Ero anche colpito (anche se allora non lo capivo) dalla complessità psicologica dei personaggi, che ammettevano d’essere pigri, cambiare idea e sentire cose che non sapevano descrivere. (Tenete presente che prima di Atlas Ufo Robot, i miei modelli di introspezione psicologica erano Tom & Jerry.) Pellitteri mi fa notare che Lamù fu creato dalla fumettista Rumiko Takahashi per raccontare le emozioni represse delle donne in un Giappone maschilista, un aspetto che il cartone mette palesemente alla berlina.

Lamù tradotta

In Lamù, si racconta della convivenza tempestosa tra un’aliena, Lamù appunto, e un liceale, Ataru Moroboshi, al quale lei si considera sposata mentre lui parla d’equivoco e continua imperterrito a sbavare dietro ad altre ragazze. I suoi tentativi pervertiti di spiare le compagne di classe nude e rubare baci a sconosciute vengono puntualmente puniti da Lamù, che oltre alla già menzionata poltrona, gli tira scariche elettriche in quasi ogni episodio.

Tuttavia, Pellitteri mi fa notare che la mia descrizione pecca di sensibilità contemporanea, dato che negli anni Ottanta le “perversioni” di Ataru facevano parte di un modo di corteggiamento diffuso, che tanti praticavano sicuri del proprio senso del limite. Limite che anche Lamù non oltrepassava, poiché Ataru non riusciva mai nei suoi intenti. (Come non ci riusciva Raimondo, il protagonista di Casa Vianello, la serie Mediaset che considero un adattamento borghese e beige di Lamù, i cui continui tentativi di scappatelle venivano sventati dalla moglie Sandra).

Rivedendo diversi episodi di Lamù prima di scrivere questo articolo, mi accorgo però che l’approccio di Ataru verso le donne viene ampiamente condannato dal cartone. Qualunque personaggio assista alle sue marachelle lo copre d’insulti, compresi i genitori che in più casi si chiedono il motivo di averlo messo al mondo. In un episodio, un personaggio minore, la principessa Kurama, volendo comprendere le motivazioni del ragazzo, lo sottopone a una risonanza magnetica che dimostra che lui pensa come Tinder: il suo cervello è pieno di foto di ragazze che Ataru approva o scarta. Sconvolte, Kurama e Lamù lo sottopongono a una “abluzione” (così la definiscono) seguita da una terapia che ne altera temporaneamente la personalità. In altri episodi, Ataru viene sdoppiato e trasformato da dolci magici e bamboline voodoo, portandolo a una sconcertante realizzazione: il ragazzo non sa ciò che fa.

Gli anime giapponesi come Lamù non hanno sistematicamente smontato gli stereotipi di genere, ma la loro attenzione alla mutazione dell’identità e l’ammissione di confusione li hanno resi strumenti significativi nella promozione di diversità.

Ma anche qui Pellitteri puntualizza. Sì, certo, l’introduzione massiccia di animazione giapponese ha esposto una generazione di bambini a una vasta gamma di comportamenti e nuove forme d’introspezione psicologica, ma bisogna anche ricordare gli sforzi dei traduttori. L’uso del termine “abluzione” in Lamù e i dialoghi ricchi di epiteti omerici de I cavalieri dello zodiaco non derivavano dagli originali, che inoltre non godevano della declamazione teatrale dei doppiatori italiani. I cartoni che tanto mi hanno insegnato sono quindi un prodotto ibrido, arrivatomi per caso più che per una volontà ben precisa, e forse proprio questa indeterminatezza ha fatto sì che da bambino mi ci sono buttato a capofitto.

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