C’era qualcosa nello sguardo di Anna Toscano che aveva a che fare con la costruzione che si oppone alla dispersione, con la restituzione del potere della parola a chi non l’ha sempre avuto. Ci sarà sempre, nello sguardo di Anna Toscano, qualcosa che ha a che vedere con questa peculiare forma di forza. Quella delle persone oppresse che si costruisce in un milione di anni, con un’infinità di parole.

La poesia che libera

Con la sua poetica e lo studio di quella altrui Anna Toscano ha ripristinato i contorni di voci depotenziate. Si trattava soprattutto di donne, di artiste, non di rado dette pazze. Una combinazione di elementi che, in questo mondo tutto da rifare, danno la somma delle più imperdonabili debolezze. Ci si poteva scoraggiare, Anna ha scelto di costruire e ricostruire con la pazienza dell’artigiana e la scintilla della poeta.

«Non è il loro tempo. Sono le poesie di un altro tempo», scrive ne Il calendario non mi segue, libro edito da Electa nella collana Oilé e dedicato alla sua Goliarda Sapienza. Con poete e scrittrici non si dovrebbero usare aggettivi possessivi. Bisognerebbe lasciarle a chiunque perché se sei di tutti non sei di nessuno e se non sei di nessuno sei libera. Eppure Goliarda un po’ sua, di Anna Toscano, lo era. Per noi (e, siamo certe, per molte altre persone) quella di Anna rimarrà la prima voce da cui abbiamo sentito parlare di Goliarda Sapienza. Perché la studiava, divulgava, portava fisicamente in giro con le sue letture quando ancora non lo faceva praticamente nessuno.

Allo stesso modo ha fatto con tante altre. Un occhio particolarmente attento lo rivolge al disagio mentale e agli abusi che ne derivano. Nel 2020, su Doppiozero, dedica un articolo a Camille Claudel. Quella di Claudel è una vicenda inconsolabile che fa pensare a un’intervista a Inès Cagnati, quando parlando del suo Génie la matta, spiega che con la sua testimonianza voleva «rendere meno assurde certe vite fatte solo di miseria».

Claudel fu dotatissima allieva di Rodin, finirà con l’essere dimenticata dal maestro-amante e internata dalla madre e dal fratello per gli ultimi trent’anni della sua vita. Chiusa in quella che, correttamente, viene definita una «prigione psichiatrica» muore sola e dimenticata. Pensando ad Anna intenta tra questi carteggi percepiamo la perizia della soffiatrice di vetro, che maneggia quanto di più temibile ci sia e restituisce una luce.

La parola come attraversamento

C’è una postura, un modo di attraversare il tempo, di studiare, riflettere e scrivere che parte dai margini, dai luoghi dove le parole sono imprigionate e silenziate. Anna Toscano, è partita da lì, costruendo un nuovo lessico: abitando quei luoghi e quelle parole, le ha trasformate in potenza e le ha restituite al mondo. Nei suoi testi la fragilità del corpo, la malattia, la morte e le marginalità diventano corpo vivo: la poesia di Toscano non si rifugia; si espone, si confronta con ciò che è difficile, invisibile – finanche doloroso – lasciando lo spazio per viverlo in modo pieno.

La sua poetica ha attraversato temi complessi, senza mai addomesticarli: la morte, la malattia, la fragilità mentale, le vite che scivolano fuori dal centro della scena. Nei suoi testi non c’è distanza né protezione: il dolore entra nella lingua così com’è, quotidiano, domestico, scomodo. Ha creato una nicchia calda in cui la scrittura non era mai separata dalla vita. Poeta e scrittrice, ma anche lettrice instancabile delle altre, delle molte che la storia letteraria di questo paese ha lasciato ai margini. Toscano ha costruito un percorso che tiene insieme poesia, ricerca, e una cartografia sentimentale della laguna. Venezia, più che uno sfondo, è stata il suo laboratorio: una poetica che partiva dall’esperienza, attraversando il quotidiano: il tempo che passa, la malattia, la morte, le relazioni, il lavoro, l’attrito continuo tra ciò che resta e ciò che si perde.

Una poesia che non si rifugia e non consola, che resta esposta. Come se la parola fosse uno spazio da attraversare insieme alle altre, senza protezioni. Accanto a questa scrittura, Toscano ha portato avanti con ostinazione un lavoro audace, complesso e necessario: rimettere al centro le voci delle donne. Scrittrici, poetesse, fotografe, artiste. Non per costruire una narrazione rassicurante, ma per mostrare quanto la cultura sia stata — e troppo spesso continui a essere — selettiva, distratta, maschile e parziale.

Le sue curatele, i saggi, le antologie dedicate alla poesia femminile sono atti di restituzione: riportano alla luce storie che esistono da sempre ma che raramente vengono ascoltate. È un lavoro che ha poco a che fare con la celebrazione e molto con la responsabilità.

Toscano non si limita a raccontare queste figure: le mette in relazione, le fa urtare tra loro, le colloca dentro una genealogia. Nominare chi ha scritto, chi ha parlato ma è stata lasciata ai margini significa restituire un’eredità. Una genealogia profondamente disubbidiente, declinata al presente.

Anna Toscano ci lascia un’eredità densa, imperitura, fatta di parole che illuminano l’indicibile. Un modo di stare dentro le cose, senza mettersi al riparo. Di scrivere senza separare il pensiero dalla relazione, la poesia dalla città, la ricerca della vita. La parola, per lei, non era un recinto ma un luogo abitabile: esigente, vivo, scomodo.

Anche «la Certa» è scomoda. Anna ci ha portate pure lì, con lei e i suoi cari Al buffet con la morte (La vita felice, 2018) in una raccolta di versi pieni – anche – di ironia. Ha confermato che di morte non si narra se non si ha senso dell’umorismo. E lo sappiamo che hai ragione, Anna. Ma adesso è faticoso trovare di che sorridere, dopo una partenza così ingiusta.

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