A Gianni Minà toccarono tredici anni di attesa da quando propose a Fidel Castro di intervistarlo nel sottopasso che portava al ring prima di un incontro di boxe a L’Avana. Ma poi ci furono sedici ore di domande e risposte e altre tre interviste e una lunga amicizia esclusiva. Minà, prima di essere un grande giornalista, era un enzima per reazioni chimiche in pellicola e carta stampata: riusciva ad unire mondi lontanissimi come si accorsero l’Italia e la Rai la domenica pomeriggio: il più bel “Blitz” della repubblica.

Ora quelle interviste con Castro sono state raccolte in un unico libro a cura di Loredana Macchietti: Minà / Fidel. Un dialogo lungo trent’anni (minimum fax) con testi di Gabriel García Márquez, Jorge Amado e Frei Betto, un attacco a tre punte da Sudamerica70. Perché Minà – ostinatamente – si era lanciato in una controstoria: spiegare all’Italia che l’America Latina non era folklore ma progresso, che le rivoluzioni di quel continente non erano attimi di libertà, ma tortuosi tentativi di proporre al Mondo un altro modo di vivere.

Dai suoi viaggi – fin da Messico ’68 – Minà tornava sempre con un bottino umano e culturale che ha segnato le generazioni che lo ascoltavano e leggevano, producendo programmi tv, documentari, riviste e libri, e annodandosi – in particolare – alla rivoluzione cubana e al suo líder, Fidel Castro, ne divenne l’ambasciatore in Europa.

Forse solo Ignacio Ramonet, scrittore e giornalista spagnolo, ha avuto tanta dimestichezza con un uomo potente e complesso come il Comandante Castro. Prima che arrivasse Oliver Stone, prima che Diego Maradona lo abbracciasse e ne facesse un padre putativo, prima che Hugo Chávez, Luiz Lula da Silva, Evo Morales e Cristina Kirchner lo trasformassero in un patriarca dell’altra idea di mondo, prima che il turismo salvasse e banalizzasse Cuba e la sua rivoluzione, Minà c’era già e svelava Castro eludendo la Cia e i pregiudizi dei governi e dei cittadini statunitensi.

Il Grillo e Campanellino

Minà c’era già e non si lasciava sfuggire nulla, visitava carceri e manicomi, mercati e salotti, ospedali e caserme e poi chiedeva spiegazioni a Castro. Quello di Minà era un giornalismo lento e permeante, non c’era superficialità ma costruzione, con una dolcezza che avrebbe fatto crollare chiunque, perché faceva incursioni nelle reclusioni e nelle concentrazioni da anni, allenato ad essere un incrocio tra il Grillo parlante di Collodi e Campanellino di J. M. Barrie, fin da quando apparve ad Adriano Panatta tra un set e l’altro al Foro Italico nel bel mezzo dell’incontro con il tennista argentino Guillermo Vilas. «Un altro l’avrei preso a racchettate, ma era Minà, che fai nun je rispondi».

È probabile che Fidel Castro abbia pensato la stessa cosa di Panatta mentre veniva interrogato in corsa prima dell’incontro di boxe. A Kinshasa, quando eravamo re, mangiò per quattro giorni pane e formaggini in attesa dell’incontro. E appena George Foreman crollò a terra, con la troupe, raggiunse negli spogliatoi Angelo Dundee – allenatore di Muhammad Ali – che li fece entrare: «Fatelo passare, fatelo passare, chillo è frate mio». E fuori la porta c’era Norman Mailer non Chiara Ferragni. Perché Minà era capace di tutto avendo garbo, empatia, tessendo amicizie e riuscendo a non far mai prevalere l’entusiasmo tivù sull’umanità.

Era la televisione e il giornalismo che volevano capire non giudicare. Un po’ Don Milani, un po’ beat, un po’ Crazy Horse. Confessionale e anticonformista. Dillo a Minà. Non si scandalizzava mai, era pronto all’invettiva contro il potere e anche all’insinuazione subdola se serviva, in nome delle grandi cause.

E Castro lo capisce fin da subito, perché Minà non gli risparmia nulla e, come sottolinea, trova in Fidel un uomo disposto a farsi chiedere tutto, anche perché essendo un abilissimo oratore, uomo colto che viene usato da Gabo Márquez come verificatore di realtà per i suoi romanzi, gli risulta facile anche dribblare, solo che Minà lo marca come Claudio Gentile marcò Maradona e Zico nel mondiale’82 in Spagna.

È uno scontro tra pazienze, ma non c’è inquisizione solo curiosità, esercizio giornalistico, e nel corso dei trent’anni Fidel vacillerà veramente solo due volte: davanti alla pena di morte usata per il generale Arnaldo T. Ochoa che si macchiò di corruzione e narcotraffico e davanti ai fatti di Tienanmen, divincolandosi dall’evidente condanna del regime comunista cinese. Perché Minà, amando Cuba, vede le contraddizioni della rivoluzione, i dogmi di Fidel Castro – negli anni c’è un lungo dialogo sulla religione che se la gioca con il libro intervista di Frei Betto –, i suoi errori, insomma niente a che vedere con Bruno Vespa e Giorgia Meloni.

Sedici ore per la Storia

Minà comprende e difende la rivoluzione proprio perché conosce il continente Sudamericano, ma non smette di domandare a Castro risposte su tutto, non le otterrà solo sulla sua vita privata, ma solo perché non insisterà mai. Leggendo le interviste viene da pensare a Oriana Fallaci, l’altro modo di andarsene per il mondo a fare domande, e capire come il giornalismo italiano era un metodo, oggi andato perduto. C’erano un uomo e una donna, molto distanti per carattere, lingua e animo, che se ne andavano in giro a far domande portando il mondo e i suoi protagonisti nelle case degli italiani. E anche gli americani erano costretti a fare i conti con queste anomalie. La Fallaci più aggressiva e con una prevalenza verso l’alto della società come un meridiano, Minà senza perdere la tenerezza e con una prevalenza verso il basso della società come un parallelo, interrogavano e raccontavano. E gli intervistati lo capivano.

ANSA

Le sedici ore che Castro concede a Minà lo consegnano alla Storia e per capirlo e per entrare ancora di più nel corpo della rivoluzione cubana bisogna guardare il documentario del regista statunitense Jon Alpert, Cuba and the Cameraman, che pure intercetta dal 1975 al 2016 il quotidiano cubano con campesinos e studenti e riesce a rivolgere qualche domanda a Fidel. Alpert rappresenta, con Ernest Hemingway, Robert Redford, Francis Ford Coppola e pochi altri, gli Stati Uniti che si sforzano di capire. Niente a che vedere con gli sforzi e la profondità di Minà che creano le basi per la comprensione di un altro rivoluzionario come l’uruguagio Pepe Mujica o prima per la guatemalteca Rigoberta Menchú e intorno una nazionale di scrittori e musicisti e sportivi che sono stati i veri protagonisti delle opposizioni ai regimi in America Latina e poi i sarti per cucire società logorate dalle dittature.

La storia e le interviste con Fidel sono la vetta del grande lavoro di Minà: memoria, comprensione, connessione, verità e giustizia – tra le tante alzate di testa: è uno dei pochi che chiede pubblicamente conto dei desaparecidos al regime di Jorge Videla in Argentina prima dei mondiali di calcio che si disputavano nel paese nel 1978. E non è un caso che Castro torni per l’ultima volta a parlare con lui dopo l’incontro con Papa Bergoglio, mostrandosi più ecologista di Greta Thunberg e consegnandogli un progetto e un desiderio: «Credo che studierò medicina la prossima volta, nella reincarnazione. Come diceva il pittore (ecuadoriano) Oswaldo Guayasamín, ‘lasciatemi una lucetta accesa’».

Ecco quella lucetta per Fidel Castro, Cuba e per l’intero continente sudamericano in Europa è stata, è, e sarà Gianni Minà. Tanto che leggendo le lunghe interviste verrebbe da fare come Mario Sconcerti – a La Repubblica – con un suo pezzo troppo lungo e troppo bello, impossibile da tagliare, lo spezzò e scrisse: continua domani [e domani e domani e domani].

© Riproduzione riservata