Chiunque abbia voglia di scoprire, almeno attraverso i sensi, quale potrebbe essere il significato più appropriato dell’espressione “musica leggera italiana” dovrebbe andare su YouTube o Rai Play e digitare, nella stessa stringa di ricerca, i nomi di Gianni Minà e Domenico Modugno. In una delle puntate della prima stagione del suo brillante programma Blitz, andato in onda tra il 1981 e il 1984, infatti, Minà ha creato una ideale cover band della gang di Amici Miei composta esclusivamente da autori e cantanti italiani; il gruppo, capitanato proprio da Mimmo Modugno, ospita anche, tra gli altri, Gianni Meccia, Loris Bazzocchi, Enrico Polito e un personaggio chiave della storia della canzone nella nostra lingua, Franco Migliacci.

Avventurieri dello spettacolo

Con l’indimenticabile logo al neon di Blitz alle spalle e le sigarette mai spente a transitare tra le loro mani e le loro labbra annebbiando visibilmente lo studio, gli invitati chiacchierano, cantano, suonano e interpretano in modo giocoso alcuni dei brani più noti dei propri repertori, sorridendo con un ghigno sospeso tra la leggerezza e una forma di quel dolce e insieme ingenuo disinteresse nei confronti di chi osserva tipico degli uomini del Novecento seduti ai tavolini dei bar dei piccoli centri abitati.

È proprio ascoltandoli e vedendoli vestire tutti insieme con naturalezza i panni ridanciani da avventurieri dello spettacolo del secolo scorso – non degli intellettuali, più degli intelligenti capaci del proprio talento – che possiamo farci un’idea, finalmente, di che cosa sia stata, alle origini, questa musica leggera italiana: l’insieme di quelle canzoni pop(olari) italiane uscite a cavallo tra la tradizione (quella, per intenderci, delle mamme del mondo tutte belle, dei papaveri e delle papere) e la cosiddetta canzone moderna.

Sono canzoni nate e prosperate in una sorta di limbo portatore di quella grazia laboratoriale speciale che possiedono solo i territori di confine: brani che tentarono per la prima volta, talvolta fallendo, di smarcarsi dalla retorica delle tronche a fine verso e delle apocopi del mondo precedente guardando già a ciò che di più coraggioso, in termini linguistici e tematici, sarebbe arrivato di lì a poco. Si tratta di canzoni che hanno abitato uno spazio temporale non breve che include tutto ciò che è accaduto tra la vittora di Modugno a Sanremo nel 1958 con Nel blu dipinto di blu e l’arrivo, a fine 60s, delle prime prove dei cantautori, e si riferisce dunque, di base, a tutto quello che in musica è successo, urlatori e beat inclusi, nel pieno degli anni Sessanta.

Il filosofo Morse Peckham afferma che entrare in relazione con l’arte equivale a esporsi a un mondo fittizio (con le sue turbolenze, i suoi problemi, le sue curve) affinché si possano sopportare le tensioni e i problemi del mondo reale: così, ascoltando e osservando questi ragazzi ormai invecchiati cantare, ridere e fumare intorno al piano viene da pensare proprio che tutte quelle loro canzoni che sembrano affari ludici e che ci hanno raccontato di svegliette, cuori rotolanti strattonati come barattoli e animali del mare innamorati siano esistite, con la loro grana fiabesca e la loro purezza d’immagini, per la tanto semplice quanto valida ragione di renderci la vita più sopportabile, più, effettivamente, leggera. Dopo molti anni a contatto con questa musica e queste canzoni nella nostra storia, solo rivedendo questo vecchio episodio di una delle migliori trasmissioni televisive di sempre, ho quindi potuto avvertire appieno la forza espressiva di questa precisa e vivace leggerezza e restituire idealmente al lavoro di quei signori (e di altri che non furono ospiti quel giorno) quell’espressione tanto abusata circa la leggerezza della nostra musica, formula che non mi è mai parsa invece calzante per la canzone d’autore né certamente per tutte le precedenti Fiorin Fiorello del caso che, nel non dirci nulla di sostanziale, finivano col risultare esteticamente tutt’altro che leggere.

Prodigiosa eredità

Ho rivisto la puntata di Blitz in questione dopo il 15 settembre scorso, pochi giorni fa, quando Franco Migliacci, uno dei ragazzi cresciuti che in quell’episodio discutono sulle poltrone e cantano intorno al pianoforte di Minà, è morto all’età di 93 anni. Lunedì 18 settembre ai suoi funerali, celebrati nella Chiesa degli Artisti a Roma, i presenti hanno registrato molte panche vuote e un’esorbitante assenza di troppe delle voci che gli devono, se non il lavoro di una vita, almeno una hit che ha permesso loro di poterlo praticare.

L’elenco dei testi di canzoni scritti da Migliacci, mantovano di nascita e fiorentino acquisito, è non solo numericamente ricchissimo ma pure prodigioso in termini di qualità e influenza sullo storico musicale del paese, tra i moltissimi titoli: Tintarella di luna, Come te non c’è nessuno, Una rotonda sul mare, La Bambola, Ma che freddo fa, Tutt’al più, Ancora.

A due artisti, su tutti, l’autore ha poi portato molti testi importanti e fortune infinite: Gianni Morandi, per cui scrisse tra le altre Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, In ginocchio da te, Un mondo d’amore, Non son degno di te e Se perdo anche te e Domenico Modugno con cui lavorò a moltissimi brani, tra cui l’onirica Selene, una divertentissima storia d’amore italoindiana per grandi e piccini, cioè Pasqualino Maragià, l’inno Libero ma, prima di tutte, la canzone che diede secondo la vulgata unanimemente il via alla prima rivoluzione musicale italiana: Nel blu dipinto di blu.

L’idea del blu

Prima di scrivere canzoni Migliacci vuole fare l’attore, ha iniziato a recitare a Firenze fin da piccolo e superati alcuni concorsi viene scelto per Carica eroica, un film di Francesco De Robertis distribuito dalla Lux Film nel cui cast c’è anche Modugno. Migliacci, che di musica sa poco e nulla ed è anche molto stonato rimane immediatamente colpito dalla forza creativa e dalla vivacità contagiosa del cantante; oltre alla grande passione per il cinema, (negli anni reciterà tra gli altri per Risi, Bolognini, Germi, Zampa) ha grande amore per il disegno: dipinge e disegna fumetti per 18.000 lire al mese.

Una domenica notte, si scopre improvvisamente incantato a osservare Le coque rouge dans la nuit di Marc Chagall e inizia a scrivere qualche riga immaginando una canzone. Inizia così: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo, lassù nel firmamento volare verso il sole: e volavo volavo felice»: l’idea del blu funziona ma l’autore ha l’intuizione di sostituire l’azione del vestirsi di blu con quella, assai meno consueta, di dipingersi ‘le mani e la faccia di blu’.

Il giorno dopo Modugno sta rientrando dal mare, i due si danno appuntamento a piazza del Popolo e Migliacci, nell’abitacolo dell’auto del cantante, gli consegna la bozza di quel testo scritto la notte precedente. Modugno inizia a leggere, lo guarda e sentenzia soltanto: «sarà un successo». Manca una parola in quel testo e Modugno se ne accorgerà di lì a pochissimo, si tratta di un termine chiave che è lì, dietro l’angolo, già scritto e insieme nascosto ma che è necessario per aprire la canzone, letteralmente spalancarla. La parola che manca è ‘volare’ e il cantante, prontamente, ne fa la chiave del suo ritornello.

A Sanremo le votazioni della giuria selezionatrice sono molto alte, il brano prende dieci da tutti i giurati tranne uno giudice che vota 9 affermando semplicemente che “il perfetto non esiste”. Alla fine del Festival, tuttavia, quasi nessuno sarà d’accordo con quel giudice perché Nel blu dipinto di blu (il cui titolo subito diventa Volare) non avrà solo scalzato la numero uno veterana della storia del Festival, cioè Nilla Pizzi, ma avrà stravolto il paradigma della canzone tradizionale.

I colori nella canzone

La verità musicologica dice che questo non è del tutto vero: nella canzone infatti sopravvivono alcuni elementi del passato (basti vedere tutte le inversioni nel testo) mentre la modernità si affaccia con prepotenza nell’uso di certi vocaboli e di certe formule particolarmente inusuali come quel bellissimo «cielo trapunto di stelle» o, più largamente, nella stessa afferenza alla dimensione onirica; a ciò si aggiunge la teatralità messa in campo nella performance, il corpo vivo con il suo movimento verso il pubblico e il famoso ‘abbraccio’ che distrugge il canonico epos sanremese levando pure l’acuto dalla chiusa per sostituirlo con una specie di sussurro.

Siamo, oltretutto, di fronte al primo successo planetario di un cantante che è anche musicista e autore e questo elemento è centrale nel discorso intorno al rinnovamento ma siamo soprattutto di fronte all’inizio conclamato di quella fase limbica della nostra canzone, quella ‘leggera italiana’ che smette di parlare una lingua e un immaginario banalizzati e inizia a uscire e osservare il mondo, il sogno, l’amore che non si rivolge più a sé stesso ma si connette, per esempio, all’arte.

Di tutta questa pre-modernità, quest’autorialità lieve, ancora lontano da schieramenti e dal così più centrale ‘impegno’ che è di là da venire, Franco Migliacci è stato assoluto protagonista, portando i colori in una forma canzone che fino a quel momento era sembrata sempre in bianco e nero, concedendo un po’ di verità e di realismo ai giovani che cercavano una scusa buona e semplice come farsi mandare a prendere il latte per darsi un bacio o litigare di nascosto da tutte le mamme del mondo, o lasciando loro immaginare di volare lassù col loro amore, come fosse un sogno, come fosse un quadro.

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