Intorno al 1970 mio padre aveva comperato da un suo conoscente, storico dell’arte e editore di un periodico specializzato, un piccolo dipinto di Salvador Dalí che ritraeva la sorella dell’artista. Si trattava di un’opera minore giovanile del 1925 apparentemente non particolarmente pregiata, che nulla conteneva della produzione più connotata dell’artista, noto come il grande maestro del Surrealismo.

Di quel dipinto sembrò poi esistere una copia, un falso. Perciò – credo fosse il 1972 o 1973 perché ero ancora all’università – andai a far visita a Dalí, a Parigi, all’Hotel Meurice, per avere da lui la conferma che il quadro posseduto dalla mia famiglia fosse l’originale. Dalí, pur confermandone l’autenticità, non sembrò attribuire allora grande importanza a quel lavoro, tant’è che accolse di buon grado la proposta di modificarlo un po’ per dargli un aspetto più vicino alla sua produzione più recente e in quegli anni più apprezzata: per esempio che cosa ne pensavo di un orologio molle?

Noi e il quadro

Avida Dollars – come lo aveva soprannominato André Breton anagrammando il suo nome – fu un po’ troppo esigente nella sua richiesta di compenso, così mio padre rinunciò a quel progetto e si tenne il quadro com’era, soddisfatto di possedere l’originale.

Quel piccolo ritratto è stato conservato in casa dei miei genitori per quarant’anni, ma anche prestato – come era giusto che fosse – per mostre ogni volta che se ne è presentata l’occasione o ne è stata fatta la richiesta da parte di musei e istituzioni. Oggi infatti è presente nel catalogo generale dell’artista.

Alla fine del 2012, quando dopo la morte di mio padre mia madre ha cambiato casa, ci è sembrato fosse arrivato il momento di separarcene. Le cose cambiano, ci sono priorità che emergono nelle vite delle persone e delle famiglie. Accettiamo quindi l’invito di Christie’s a includere il dipinto nell’asta “The Art of Surreal” del febbraio 2013.

Il vincolo

L’ufficio esportazioni di Milano a cui viene presentata la richiesta di attestato di libera circolazione trasmette, tra gennaio e marzo 2013, a catalogo già stampato e distribuito, un preavviso di diniego seguito dal procedimento di acquisto coattivo del dipinto. Giuro che non mi sarebbe dispiaciuto che quel quadro finisse in un museo invece che perderlo di vista per sempre. Poco dopo però ci viene comunicata l’impossibilità a procedere per mancanza di fondi. 

Contemporaneamente viene avviato il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale, ovvero il vincolo che ci metterà nella condizione di non poter più vendere il quadro se non forse a un soggetto privato italiano e a una frazione del suo valore che pone il lavoro in una sorta di confino.

La fondazione Dalí 

(AP Photo/Robert Kradin)

Le motivazioni del divieto sono sorprendenti: l’elevata qualità del dipinto, la scarsa presenza di opere di Salvador Dalí nelle collezioni italiane, ma anche l’analogia con l’arte Italiana dei primi Anni Venti.

Avvio quindi un ricorso con l’assistenza dell’avvocato Giuseppe Calabi e, per approfondire e corredare le nostre ragioni di riferimenti storico/critici, contatto la Fondazione Dalí che si dichiara disposta ad acquisire l’opera per la propria collezione, ovviamente, a condizione che il diniego all’esportazione venga revocato.

Da appassionata di arte, non riesco a immaginare un destino migliore per un’opera minore, appartenente al periodo giovanile di un artista, che quello di essere esposta al pubblico nel luogo e nell’istituzione che l’artista stesso ha contribuito a fondare.

E sono felice di pensare che i miei figli e i figli dei miei figli potranno vedere per sempre il quadro appartenuto al loro nonno e bisnonno. Pace se all’asta di Londra avrebbe potuto ottenere un risultato più attraente dal punto di vista economico.

La conferma

Ma l’ufficio esportazione di Milano conferma il diniego in quanto la proposta della Fondazione Dalí è contenuta in una lettera di intenti: non costituisce una garanzia. 

La Fondazione Dalí e io sottoscriviamo allora un contratto di compravendita vincolante, la condizione ovviamente è sempre che il diniego venga revocato.

Resto fiduciosa: a parte tutte le considerazioni sull’illogicità del divieto iniziale non mi sembra possibile che si possa negare la libera circolazione se l’opera sarà conservata in un museo e se, invece di essere trattenuta in Italia, esposta nel salotto di mia madre, sarà offerta alla pubblica fruizione.

Per di più la Fondazione Dalí ha prodotto numerosissime mostre di Dalí in Italia e continuerà a farlo. Invece no, la direzione generale invita a proseguire il procedimento di dichiarazione di interesse. Il particolare interesse artistico viene confermato nel dicembre 2014.

Un quadro prigioniero

Con tutta la frustrazione e il senso di ingiustizia causati dalla irragionevolezza di tali decisioni, ho avviato, sempre con l’assistenza di Giuseppe Calabi, un ricorso al Tar. Dopo tre anni (più di cinque da quando la vicenda a ha avuto inizio) si è finalmente tenuta l’udienza: il quadro rimane bloccato.

Il lavoro di Dalí è definitivamente prigioniero in Italia, praticamente inaccessibile, invisibile e invendibile, ma secondo alcuni il nostro patrimonio culturale è stato protetto. Io e la mia famiglia abbiamo subìto un grave e ingiustificato danno economico e morale. Tutti perdenti.

Il dipinto, che avrebbe avuto una vita più interessante altrove, sta appeso nel salotto di una anziana signora che avrebbe magari preferito sostituirlo con altri lavori, favorendo magari qualche artista vivente, e nessuno mai dal ministero si è premurato di chiederne notizia, di sapere dove si trovi, né di verificarne lo stato di conservazione.

L’altro lato della protezione

Di questa vicenda si è parlato sul Guardian, sul New York Times, su la Vanguardia, mai però che un quotidiano nazionale abbia mostrato interesse, nonostante ne sia stato informato.

Se tutto ciò fosse accaduto in Francia, per esempio, se lo stato non avesse reperito i fondi (pubblici o privati) per acquisire l’opera entro i termini stabiliti, l’esito sarebbe stato fuori discussione. Purtroppo in questo paese si fa una gran confusione tra il patrimonio culturale, che andrebbe meglio protetto, e la fruizione della cultura e dell’arte, che va sostenuta, incoraggiata e che deve essere libera di circolare e di trovare le sue fonti di sostenibilità anche alienando delle opere.

Invece per la discrezionalità di qualche funzionario può accadere che, come è avvenuto in questo caso, non vengano fatte distinzioni tra collezionisti seri, custodi per decenni di opere che altrimenti giacerebbero abbandonate, e coloro che trafugano opere dalle chiese e dalle tombe.

Senza considerare quanto la restrittività delle nostre leggi danneggino gli artisti italiani, per molti dei quali questa supposta protezione significa soprattutto scarsa visibilità e scarsa competitività sulla scena internazionale.

Assab one

Aggiungo che dal 2002 a oggi dedico all’arte l’immobile che ospitava l’azienda grafica di mio padre. Qui gestisco con le mie sole risorse, una organizzazione non profit, Assab one, che in quasi vent’anni ha permesso a tantissimi artisti e curatori, italiani e non, di realizzare progetti e di rendere visibili lavori che altrove non avrebbero avuto lo stesso spazio e la stessa libertà di azione.

E ha consentito al pubblico, italiano e non, di visitare gratuitamente mostre di livello internazionale e di accedere ai diversi linguaggi dell’arte in un contesto non commerciale. Va da sé che la continuità e la sostenibilità di simili progetti non vanno affatto d’accordo con la discrezionalità dei funzionari nell’applicare le norme né con una visione restrittiva quale quella che ha accompagnato tutto l’iter di questa vicenda.

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