Le leggi del nostro paese aiutano a valorizzare il patrimonio artistico raccolto dai collezionisti? Quelle attuali a tutela del patrimonio culturale di proprietà dei privati favoriscono o ostacolano il collezionismo? Offrono parametri chiari che consentano una corretta valutazione del bene?

A cosa va incontro il collezionista che, vedendosi notificato il proprio bene, non potendolo cioè vendere liberamente all’estero, qualora volesse, ne vede svalutato il valore? L’argomento è stato affrontato ieri sul nostro quotidiano dal collezionista Giuseppe Iannaccone, il quale si è soffermato sulla legge che prevede che, a settant’anni della morte dell’autore, le opere d’arte ritenute di interesse pubblico possono essere notificate dallo stato, nel qual caso non possono essere vendute all’estero. Altra questione affrontata e oggetto di dibattito è la difficoltà che incontrano i collezionisti a donare le loro opere a istituzioni pubbliche.

L’argomento è complesso e spinoso e certamente nessuno è così ingenuo da pensare che lo stato possa comprare tutte le opere notificate. Anche volesse non ci sarebbero fondi e strutture sufficienti. Ci si chiede dunque se è importante lasciare inalterata l’attuale normativa o se sia meglio modificarla e in che modo, se la legge in vigore scoraggia il collezionismo e penalizza il mercato dell’arte in Italia o ci aiuta a tutelare il patrimonio culturale.

Il dibattito va avanti.

Giuseppe Calabi

esperto in diritto dell’arte

La recente ricerca di Nomisma Arte – Il valore dell’industry in Italia presentata a Roma nel novembre 2021 ha evidenziato un giro d’affari complessivo dell’industry arte in Italia pari a 1,46 miliardi di euro, con un impatto economico complessivo di 3,78 miliardi (effetto moltiplicatore: 2,60 miliardi) e un numero di lavoratori complessivamente coinvolti pari a 36mila miliardi. A fronte di questi dati significativi, nel periodo 2011-2019 si è assistito a una notevole riduzione del numero delle gallerie e delle case d’asta operanti in Italia.

Si pone quindi l’urgente necessità di proseguire il percorso avviato con la mini-riforma del 2017 attenuando i vincoli burocratici a cui è esposta la circolazione di beni artistici, sostenendo il collezionismo privato attraverso incentivi, anche di natura fiscale, e rendendo il mercato dell’arte italiano maggiormente competitivo di quanto lo sia attualmente rispetto ai mercati francese, tedesco e inglese.

Inoltre, in Italia la legge non crea sufficienti incentivi per favorire iniziative di mecenatismo da parte di privati: l’art bonus è sicuramente un passo nella giusta direzione, ma il suo raggio d’azione è limitato ai casi in cui si crei un vantaggio a beneficio di beni pubblici.

La normativa di tutela dei beni culturali italiana risale alla legge Rosadi del 1909, anche se norme di protezione e di controllo sulla circolazione internazionale delle opere d’arte si rinvengono anche negli stati preunitari e, in particolare, nel Gran Ducato di Toscana e nello Stato della Chiesa.

Nel periodo intercorrente tra la costituzione dello stato italiano (1861) e l’approvazione della legge Rosadi hanno continuato a trovare applicazione le norme degli stati preunitari, che prevedevano la necessità di una autorizzazione per l’esportazione di cose di interesse culturale di autori non più viventi realizzate da oltre cinquant’anni.

La soglia temporale è stata elevata a settant’anni dalla legge 124/2017, che ha anche introdotto una soglia di valore (13.500 euro) per le opere di età superiore a settant’anni di artisti non più viventi.

Per questa categoria di opere non è richiesto un permesso, ma basta una autocertificazione, anche se lo stato può notificarle se presentino un interesse eccezionale per l’integrità e completezza del patrimonio culturale della nazione.

In questo quadro normativo, i tribunali amministrativi italiani hanno ricorrentemente affermato che l’interesse del collezionista privato è recessivo rispetto all’interesse pubblico quando si tratti di tutelare il patrimonio culturale. Nel sistema legale italiano “interesse recessivo” significa che il privato deve subire forti limitazioni al proprio diritto di proprietà, senza che queste limitazioni siano, almeno in parte, compensate con vantaggi economici.

Tra le limitazioni al diritto di proprietà, si pensi al divieto assoluto di esportare definitivamente un’opera notificata (che rende praticamente impossibile la sua vendita a uno straniero, a meno che lo straniero non si impegni a tenere l’opera per sempre in Italia) ovvero alla necessità di un’autorizzazione nel caso sia necessario trasferirla presso un luogo diverso che non sia una dimora del proprietario ovvero nel caso in cui siano necessari interventi di restauro.

In Francia la notifica di un bene mobile come bene culturale fa sorgere in capo al proprietario il diritto a un’indennità, mentre in Italia la notifica è a costo zero per lo stato.

Questa situazione rende i collezionisti italiani molto cauti quando si tratti di rendere le opere della loro collezione pubblicamente fruibili, ad esempio attraverso prestiti a favore di musei per esposizioni durante mostre, in quanto in caso di prestito un’opera può suscitare l’interesse della pubblica amministrazione e generare un’iniziativa finalizzata alla sua tutela.

Gabriella Belli

direttrice della Fondazione musei civici di Venezia

Molte collezioni pubbliche italiane (in particolare quelle dedicate al Novecento e al contemporaneo) si sono formate grazie all’apporto generoso del privato, che ne ha incrementato il valore qualitativo e quantitativo con lasciti e donazioni, sostituendosi nell’azione di arricchimento del patrimonio nazionale a uno stato che è complessivamente indifferente alle questioni culturali che troppo poco peso hanno nella voce investimenti del suo bilancio e, soprattutto, uno stato da decenni latitante in quanto a nuove acquisizioni. Il tema dunque non può che essere all’ordine del giorno nell’agenda di qualunque direttore, responsabilmente impegnato durante il suo mandato non solo a conservare e valorizzare l’eredità ricevuta, ma anche ad arricchirla, perpetuando così quel valore di testimonianza della nostra civiltà che a futura memoria l’arte svolge dentro i musei.

Va da sé che matrimoni con il collezionismo privato si continuano a celebrare all’interno delle strutture pubbliche più dinamiche e meglio organizzate, quelle soprattutto che hanno saputo costruire virtuose reti di collaborazione, fondate certo su rapporti fiduciari e di rispetto reciproco, ma anche sulla capacità della struttura ricevente di risolvere giuridicamente le molte esigenze che accompagnano generalmente questi contratti, siano essi frutto di lasciti testamentari o di volontà espresse in vita. La disciplina giuridica nel caso di specie sappiamo però che non offre molte garanzie al donatore e ai suoi eredi, che davanti al mancato rispetto delle disposizioni contrattuali, potranno solamente affidarsi a un contenzioso dall’esito spesso incerto e comunque dai tempi infiniti. Sappiamo bene, e i casi si contano a decine, che spesso lo stato e/o l’ente pubblico territoriale, diventato legittimamente proprietario del bene, accoglie con entusiasmo ma non sempre restituisce con altrettanta generosità.

Musei e istituti pubblici devono affrontare altrettante incertezze: i bilanci, lo spazio, la sicurezza e i vincoli di contratto, spesso contrari a qualsiasi cambiamento, anche migliorativo delle condizioni poste dal donante. Servono strumenti idonei a disciplinare in maniera giusta ed equilibrata questi rapporti così preziosi per il bene comune, cui affidiamo gran parte delle aspettative di sviluppo dei nostri musei. Serve un cambiamento di mentalità da parte di tutti e due i contraenti: musei e collezionisti. I primi dovrebbero assumere precise responsabilità non solo morali ma anche legali nei confronti degli impegni sottoscritti, trasferendone l’onere ai successori; i secondi dovrebbero nutrire più fiducia nel cambiamento dello stato giuridico della loro collezione, autorizzando anche scenari innovativi per la fruizione a fronte di immutate garanzie di salvaguardia del patrimonio donato. Come la società anche il mondo dei musei è in continua evoluzione.

Servono dunque indicazioni di legge che disciplinino contratti “leggeri”, che assolvano pienamente alla funzione di tutela e conservazione dei beni donati, ma che ne garantiscano una gestione flessibile, utilizzati in contesti di nuove opportunità di studio e valorizzazione. Questi criteri oggi non sono più immaginabili solo legati all’esposizione permanente, ma piuttosto a una continua opera di messa in valore attuata attraverso nuovi approcci museografici, che ne possano anche prevedere il temporaneo spostamento all’interno dei percorsi museali, ma anche in altri contesti ad alto profilo scientifico. Contesti che concedano l’autorizzazione al prestito temporaneo, all’itineranza, e soprattutto a nuovi modi di fruizione, che superino la logica della musealizzazione tout court, e vengano effettivamente incontro alle esigenze di formazione e arricchimento culturale della comunità, che necessita di uno spazio museale sempre più dilatato nel tessuto urbano e territoriale.

Le aree a ridosso dei centri storici per esempio dovrebbero poter accogliere, anche riutilizzando quella architettura “poverista” senza pregio e a basso costo di gestione che abita i perimetri, grandi archivi dell’arte, visitabili e ricchi di patrimonio: oltre la magniloquenza delle prestigiose architetture museali, nate nel nostro paese in un momento storico di straordinaria vivacità e interesse per l’arte moderna e contemporanea allo scorcio del XX secolo, oggi sembra prevalere l’esigenza di una maggiore densità di contenuti culturali (e quindi artistici), tale da facilitare una sempre più diretta e più semplice opportunità di fruizione e consumo da parte dei nuovi cittadini, il cui segno distintivo è dato dalla straordinaria ricchezza di generi, etnie, lingue e tradizioni.

In uno scenario legislativo così riformato anche il significato della notifica, oggi per lo più vissuta dai collezionisti come un fastidioso limite alla proprietà privata e principalmente come danno economico, spina irritativa nella relazione pubblico/privato, dovrebbe tradursi in un’azione graduale. In un’azione basata su criteri meno incerti e soggettivi di quelli che oggi informano l’avvio delle procedure di dichiarazione di eccezionale interesse storico artistico di un bene, con una valutazione più meditata e approfondita sull’eventualità che alla notifica possa seguire da parte dello stato l’acquisto del bene. Una valutazione che nello stesso tempo sia meno pregiudiziale, anzi oserei dire favorevole, per esempio a specifici casi come la cessione di opere dell’arte italiana contemporanea post settant’anni a istituzioni pubbliche straniere. Una riforma che superi quel vulnus legislativo che vede coincidere la figura dell’estensore del vincolo con la persona a cui si appella colui che fa ricorso (sic!), e soprattutto che si espliciti attraverso limitazioni successive, graduali appunto, che pur mantenendo il controllo del bene giudicato importante per la storia artistica del paese non necessiti da subito di una sentenza definitiva come è appunto l’imposizione di un vincolo.

Spesso il controllo di un bene e la sua disponibilità per depositi a lungo termine o prestiti a mostre importanti o altri eventi, agevolata da una condivisione di obiettivi e da una chiara finalità culturale, è più importante e foriera di un lieto fine, di un bene notificato chiuso nelle segrete stanze di un collezionista. Questo l’ho imparato nella mia lunga carriera dove grazie al rapporto con il collezionismo privato, i musei che ho diretto hanno potuto arricchire gli studi e la ricerca presentando patrimoni di straordinario interesse, sempre disponibili alla pubblica fruizione, patrimoni che ancora oggi sono lì, custoditi nel museo, molti diventati da depositi a lungo termine vere e proprie donazioni.

James M. Bradburne

direttore della pinacoteca di Brera, Milano

È chiaro che ogni stato ha il diritto, anzi l’obbligo, di preservare il suo patrimonio in nome dei suoi cittadini. Ma non tutto il patrimonio appartiene allo stato, anche se è stato creato sul territorio e dai suoi propri cittadini. Il patrimonio è fatto per lo più per i clienti: istituzioni, chiese, ma più spesso per i privati. Questo significa, in una società aperta, che almeno una parte della cultura è proprietà privata. E la proprietà privata può essere comprata, venduta e scambiata secondo le regole del mercato. Attualmente, almeno in Italia, la notifica è un esproprio: il proprietario perde il diritto di disporre della sua proprietà come meglio crede. Questo ha un effetto paralizzante sui collezionisti e sui proprietari di beni culturali a danno del paese. Credo che un sistema migliore sia la prelazione: se lo stato vuole che i beni culturali rimangano nel paese può comprarli e metterli in una delle istituzioni del paese. Ma questo diritto non può essere interpretato come il diritto di bloccare una vendita senza un corrispondente obbligo di acquisto. Se lo stato non è in grado di acquistare l’oggetto dopo un tempo prestabilito, dovrebbe perdere il diritto di impedirne la vendita in patria o all’estero. In questo modo lo stato rispetterebbe i termini dell’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”), ma anche i diritti del proprietario. Questa è la pratica adottata dalla maggior parte dei paesi europei, e sembra – almeno a me – che ogni altra sia una violazione dei diritti dell’individuo.

Claudio Strinati

storico dell’arte

Leggo una nobile e fervida presa di posizione sulla vexata quaestio del vicolo di importante interesse e sul rapporto collezionista privato-museo pubblico, dove il ragionamento, ineccepibile in sé, mi pare scarsamente efficace sul piano operativo, là dove ci si chiede se le leggi italiane assicurino o no allo stato italiano stesso almeno una parte dei capolavori acquisiti con impegno e competenza dai collezionisti.

Gli strumenti di tutela sono limitanti e non permettono la libera circolazione delle opere? Lo sono ma l’aspetto positivo di tale impostazione è rimarchevole. L’unica cosa, tuttavia, che si potrebbe modificare sarebbe trasformare la notifica italiana in notifica europea il che permetterebbe la circolazione e la vendita libera in area appunto europea dei beni mobili.

Sarebbe possibile senza ledere alcun principio culturale e giuridico proclamato dal codice dei beni culturali. Ma non accadrà mai, specie a causa degli inevitabili veti incrociati tra i potenziali proponenti. Inoltre non potrebbero mai esistere delle normative che garantiscano l’acquisizione da parte dello stato, per acquisto o donazione, di collezioni che sono state formate con competenza da privati.

Infatti il collezionista che ha raccolto le opere con dedizione, amore e impostazione museale, deve soprattutto essere meglio protetto e sostenuto dallo stato ma preminentemente in materia fiscale e amministrativa, specie in una nazione come l’Italia che detiene patrimoni museali di somma rilevanza e qualità, nonché quantitativamente immani.

Certo i casi di un Panza di Biumo, di un Jucker, di una Gian Ferrari, sono effettivamente esemplari. In questi casi lo stato può aiutare il collezionista a costituire una istituzione privata (fatti salvi i diritti degli eredi) tipo fondazione a fini espositivi e di studio. Il Prado, la National Gallery di Londra, l’Ermitage, gli Uffizi sono in effetti acquisizioni pubbliche da raccolte private, ma di regnanti o assimilabili. Panza di Biumo, Iannaccone, o Gian Ferrari non sono dei regnanti o assimilati ma personalità desiderose di rendere pubbliche le risultanze di preclare attività culturali da loro magistralmente svolte. Allora o si cerca di far convergere i propri beni in un museo già costituito e si cerca di costituirne uno noi stessi con i nostri beni.

La prima ipotesi rientra nel campo dei pubblici acquisti o delle donazioni.

In Italia queste ultime possono costituire un onere e un ingombro pretendendo legittimamente il donatore che tutto sia esposto o che siano riservati nel museo spazi a lui intitolati. Il che non è sempre possibile e peraltro neanche costantemente auspicabile come vincolo assoluto.

La legge di tutela, in proposito, non va bene e andrebbe riformata? Certamente, ma osservo come le lamentazioni prive però di circostanziate proposte alternative sul vicolo e sulla sua gestione durino ormai da decenni senza che nulla sia accaduto.

Per il pubblico funzionario, pur ligio e onesto, appare sovente alto il rischio di esporsi a rilievi, censure, incriminazioni vere e proprie sulla base di normative, peraltro per lo più ben formulate, che sembrano però tenere poco conto dell’errore in buona fede e tendere talora ad alimentare il sospetto.

In ogni caso una qualunque riforma può partire solo dal ministero della Cultura e dalle commissioni parlamentari competenti, in assenza attualmente di elaborazioni dottrinali nuove sia in ambito universitario, sia in ambito saggistico e convegnistico, il che potrebbe far pensare a uno scarso interesse della comunità per tali problematiche, talora confinate più nello scandalismo giornalistico (e di livello non sempre alto) che nella ricerca e nel dibattito competente.

Alessandra Di Castro

presidente Associazione antiquari italiani

I collezionisti in Italia non sono aiutati a valorizzare il patrimonio artistico, né le leggi assicurano allo stato italiano almeno una parte dei capolavori acquisiti dai collezionisti. Principalmente perché in un sistema come il nostro le mostre possono rappresentare, nell’ottica dell’amministrazione, un’occasione per “andare a caccia” di opere d’arte da vincolare. In Italia infatti il vincolo comporta un’importante limitazione della proprietà privata, con la parallela forte svalutazione del bene, senza però prevedere per il proprietario alcun indennizzo, né da parte dello stato alcuna presa di responsabilità come avviene ad esempio oggi in Francia, dove lo stato ha l’obbligo di acquisto in caso di notifica.

Ma esistono almeno altri due aspetti critici.

Il primo, poco conosciuto ai non addetti ai lavori, è connesso al regime dell’importazione in Italia. Nonostante la legge non preveda (a ragione, proprio per favorire l’ingresso in Italia di opere d’arte) grosse formalità per chi intenda far entrare un bene presente all’estero, una circolare ministeriale del 2019 ha imposto vere e proprie corse a ostacoli a carico dell’importatore, che dovrebbe, addirittura, dimostrare il titolo con il quale l’opera, oggi in entrata in Italia, sarebbe uscita dal paese decine di anni prima. Una prova difficilissima da fornire per molte opere, soprattutto quelle antiche: si pensi al caso dell’opera che abbia subìto diversi cambi di proprietà; o a quello dell’opera all’estero già da decine di anni senza passaggi d’asta documentati.

Conseguenza pratica: per paura di restare bloccati nella burocrazia, i collezionisti stanno rifuggendo dalle mostre italiane, non portando più i capolavori di loro proprietà nel nostro paese, con l’unica conseguenza di privare l’Italia e la ricerca storico artistica di moltissime opere d’arte – anche italiane - circolanti all’estero.

Basterebbe applicare l’articolo 72 del codice e, soprattutto, il relativo decreto attuativo del 2018, che non prevede l’imposizione di tali gravosi oneri probatori, ma soltanto che chi importi temporaneamente l’opera in Italia ne dimostri l’effettiva provenienza dall’estero nonché di esserne legittimo proprietario.

Il secondo tema è quello legato all’attuale legislazione sull’esportazione.

L’Italia merita un discorso a parte perché storicamente è stata serbatoio di acquisizioni e anche, purtroppo, di spoliazioni. La tutela è un faro che deve essere condiviso da tutti noi. Ma, allo stesso tempo, è necessaria una maggiore attenzione verso la circolazione dei beni che è un caposaldo dell’Unione europea con cui l’Italia è in fortissimo disallineamento.

Come bilanciare quindi tutela, diritto di proprietà, valorizzazione delle opere d’arte e sostegno al mercato? Le strade sono almeno due.

La prima è quella di garantire a tutti coloro che hanno l’esigenza di esportare un bene di più di settant’anni, certezza dei tempi per il rilascio dell’autorizzazione. Il secondo passo da fare è quello di implementare la cosiddetta “soglia di valore”.

Sarebbe bene guardare all’Europa, che – da diversi anni – ha previsto delle soglie di valore articolate su varie tipologie di opere (dipinti, sculture, arredi ecc.) e ben più alte di quelle italiane.

Da noi, la soglia di valore è unica, di 13.500 euro, mentre in Francia, per i dipinti ad esempio, è ben venti volte superiore.

In un’epoca in cui veniamo sempre richiamati a un maggiore allineamento alla normativa comunitaria, sarebbe quindi il caso di adeguarsi, anche su questa materia, alla normativa dell’Unione europea, uniformando le soglie di valore italiane a quelle comunitarie. E sarebbe bene farlo al più presto, prima che l’emorragia in corso da anni di antiquari, galleristi e collezionisti dall’Italia porti a più gravi conseguenze: siamo ancora in tempo, ma è necessario non perderne dell’altro.

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