A trent’anni dalla morte di Isaac Asimov, la fantascienza è dappertutto.

A partire dal cinema americano, che continua a riciclare (con più o meno intelligenza) intuizioni e immaginari di cinquanta o settant’anni fa: basta guardare quello che fa la Marvel con i viaggi nel tempo e le civiltà extraterrestri. 

Se alcuni dei maestri del genere iniziano a essere dimenticati - il più sfortunato in questo senso sembra essere A. E. van Vogt - altri come Ray Bradbury, Philip K. Dick e lo stesso Asimov continuano a essere oggetto di ristampe. Uno straordinario lavoro di conservazione, restauro e riscoperta lo sta facendo Oscar Mondadori con i volumoni della collana Draghi, che in un lustro hanno messo in piedi una biblioteca essenziale del genere. Dai padri nobili - Jules Verne, Edgar Allan Poe, H. G. Welles - ai grandi nomi dell’età dell’oro - oltre a Bradbury e Asimov si segnalano Arthur C. Clarke, Robert Heinlein, Theodor Sturgeon - fino alle generazioni successive, da Harlan Ellison ai cyberpunk.

Una porta d’accesso 

Da qualche mese è inoltre disponibile nei Draghi quella che costituisce la migliore porta d’accesso al genere: la monumentale antologia Storie della fantascienza, realizzata da Isaac Asimov e Martin H. Greenberg, che raccoglie in cinque volumi (curati graficamente da Lorenzo “LRNZ” Ceccotti) centinaia di racconti dei più grandi autori pubblicati tra il 1939 e il 1963.

Un quarto di secolo in cui la fantascienza è passata dalle rivistine pulp dai nomi fantasmagorici - Amazing Stories, Astounding Stories, Planet Stories… - al successo di massa e persino al rispetto della critica, con la new wave britannica di autori più letterari come J. G. Ballard e Brian W. Aldiss. 

Ognuno di questi racconti è la traccia di una riflessione sulla società e in quanto tale il prodotto della sua epoca. Le paure apocalittiche legate alla tecnologia evolvono con il tempo - come racconta bene Marco Malvestio in Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (Nottetempo) - così come le speculazioni filosofiche sull’uomo, sulla morale, sulla coscienza. 

Le profezie di Asimov

Intervistato alla televisione, alla domanda su come vedeva il futuro del mondo entro cinquecento anni, Asimov rispondeva che vi erano solo due opzioni: se da qui ad allora non avremo risolto i problemi attuali, allora sarebbero restate soltanto le rovine di una civiltà tecnologica; mentre se fossimo riusciti a risolverli, allora avremmo potuto vivere in una specie di utopia, una società capace di gestire efficacemente le proprie risorse ed eventualmente di colonizzare gli altri pianeti.

Di fronte a queste profezie è inevitabile porsi alcune domande. Asimov era un novellista e romanziere, considerato uno dei più grandi autori di fantascienza del Novecento: perché chiedere a qualcuno che inventa delle storie di parlarci della realtà? E poi quali sono di preciso questi problemi che rischiano di condannarci alla rovina? E infine: nel tempo passato da quell’intervista, abbiamo fatto qualcosa per risolverli?

Lo scrittore è stato spesso sollecitato per descrivere la sua visione del futuro, nella quale l’ottimismo prevale ma le ipotesi più pessimistiche sono sempre prese in considerazione. D’altronde le sue opere di finzione erano esse stesse dei tentativi di descrivere le conseguenze di potenzialità già visibili nel presente: dai tempi di Verne e di Wells, la fantascienza non è mai stata soltanto evasione, ma anche previsione.

Questa era sicuramente la visione di uno dei più influenti editor dell’epoca classica, John W. Campbell, dalla cabina di pilotaggio di Astounding Stories (poi Astounding Science Fiction), rivista da lui diretta per un trentennio.

Qualche volta gli scrittori ci hanno imbroccato e qualche volta no: ad esempio siamo stati sulla Luna ma non abbiamo inventato la macchina del tempo. Da parte sua Asimov aveva annunciato le macchine a guida automatica, la carne artificiale e ovviamente la diffusione di robot e intelligenze artificiali.

In tutte le interviste, lo scrittore viene presentato con ammirazione come un uomo incredibilmente razionale, dotato di ampie conoscenze scientifiche, capace perciò stesso di prevedere l’avvenire.

Insomma come una versione in carne e ossa del personaggio centrale del ciclo della Fondazione, Hari Seldon, matematico inventore della psicostoria, la scienza immaginaria capace di determinare come andranno le cose a partire dall’analisi statistica di un’enorme quantità di dati.

Ovviamente lo scrittore non faceva nulla del genere ma si limitava a cogliere alcune tendenze del dibattito scientifico del suo tempo.

La civiltà tecnologica e il suo destino

Quanto ai problemi che rischiano di condannarci al collasso della civiltà, si suppone che siano proprio quelli di cui parlano i suoi racconti. I robot? I robot, certo, ma non bisogna prenderli troppo alla lettera. Segnando una drastica rottura con la cultura popolare del passato, che vedeva gli automi con una pura e semplice minaccia in nome di un “complesso di Frankenstein”, a partire dai primi anni Quaranta lo scrittore ha affrontato la questione su un piano diverso, interrogandosi sugli effetti imprevedibili della programmazione.

Cosa succede se per perseguire il suo scopo l’automa deduce dei comportamenti fastidiosi o pericolosi, cosa succede se diversi scopi entrano in conflitto? Certo, i robot asimoviani perseguono sempre il bene: ma che cosa diavolo è il bene? La grande intuizione dello scrittore fu di perfezionare i robot per portarci ad affrontare questioni ben più alte della semplice lotta con un frullatore impazzito.

La domanda oggi non si pone ancora per i robot, ma per tutti quei sistemi retti da rigide procedure logicamente definite, dall’ordinamento giuridico alle burocrazie. Proteggerci dal male è facile, ma come ci si protegge dal bene? Un tema ricorrente nei racconti di fantascienza, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta.

Evasione, previsione, speculazione

Leggendo questi racconti, viene il sospetto che il futuro immaginato dalla fantascienza negli anni del Dopoguerra sia il nostro presente. Dopo l’era dell’evasione che ha caratterizzato gli anni delle riviste pulp fino al 1939, dopo l’era della previsione incarnata da Astounding Science Fiction fino agli anni Sessanta, inizia l’era della speculazione: la fantascienza diventa una cartina tornasole per raccontare il presente, mettendo i personaggi in situazioni estreme che rivelano la loro vera natura.

Per farlo non c’è neanche bisogno di tanti effetti speciali, come aveva capito benissimo Rod Serling realizzando in quegli anni la serie tv Ai confini della realtà: nella terza puntata della terza stagione, del 1961, bastano l’annuncio radiofonico di un imminente bombardamento atomico e una famiglia che si rifugia in cantina rifiutando di ospitare i vicini, per raccontare l’egoismo e la piccolezza di una comunità incapace di cooperare di fronte alla tragedia. Una piccola grande storia di fantascienza, col budget di Casa Vianello.

Asimov contro Dick

Oltre ai racconti, l’antologia Storie della fantascienza vale anche per gli inquadramenti storici e per i commenti dei curatori. Talvolta illuminanti e talvolta semplicemente rivelatori di alcune idiosincrasie e rivalità interne al mondo della fantascienza, come nella balzana polemica con cui Asimov introduce il racconto Impostore di Philip K. Dick (pagina 920 del quarto volume) contestando il suo uso di droghe. Secondo l’autore della Fondazione, le droghe non permettono di «espandere la mente», ma anzi la distorcono. E conclude: «È ovvio che lo strumento principale di uno scrittore è il suo cervello. Uno strumento secondario è, diciamo, la macchina per scrivere o un programma di elaborazione testi. Non ho mai sentito di uno scrittore che si sia messo a picchiare con insistenza la propria macchina da scrivere con un martello, convinto che ciò gli avrebbe permesso di far meglio il suo lavoro. Perché mai, allora, picchiare insistentemente con un martello chimico il proprio cervello dovrebbe farlo funzionare meglio?»

Quanto al senso da trarre dai racconti, Asimov è più permissivo. Come scrive introducendo il racconto Caleidoscopio di Bradbury (p. 158 del terzo volume): «Lascio che siate voi a trarne la morale. La vostra potrebbe essere diversa dalla mia».​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​

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