Chi ha fatto notare la mancanza di bellezza formale dentro l’edizione 2025 diretta dallo scienziato/urbanista/architetto Carlo Ratti, forse non ha fatto i conti con un mutamento centrale della vita quotidiana. Questa nuova natura dell’esistenza – che deriva dal sovrapporsi e dal nutrirsi del cambiamento tecnico-scientifico con quello climatico – richiede una trasfigurazione stessa del significato stesso di «esposizione universale»
Chi ha fatto notare la mancanza di bellezza formale mostrata dentro la mostra chiamata Biennale d’Architettura di Venezia 2025 e diretta questa volta dallo scienziato/urbanista/architetto Carlo Ratti, forse non ha fatto i conti con un mutamento centrale anzitutto della vita quotidiana. Mai così drasticamente accelerato, non ci si stancherà di ripeterlo.
Questa nuova natura dell’esistenza – che deriva dal sovrapporsi e dal nutrirsi del cambiamento tecnico-scientifico con quello climatico – richiede una trasfigurazione stessa del significato stesso di «esposizione universale» nato quasi 200 anni fa e inteso come rassegna delle migliori innovazioni tecnico-manufatturiere di ciascun paese occidentale.
La stessa idea venne traslata successivamente nell’invenzione delle Biennali culturali, ma che sempre conservano al suo interno una più o meno sofisticata forma di fiera. Chi ha accusato in tal senso questa edizione 2025 non si è reso conto della mancanza quasi radicale (all’interno del percorso) proprio del prodotto architetturale o di “progetti” messi o da mettere a terra.
L’esposizione
Questo è l’elemento che più ha sconcertato i professionisti del settore. Che cosa c’è in “mostra” allora? Principalmente sono forme di collaborazione tra esponenti di discipline differenti, spesso costrette/i ad abbassare la temperatura del proprio archi-ego in favore di esperimenti più o meno riusciti, spesso inediti, a volte felicemente bizzarri.
Questa Biennale si è in tal senso trasformata in un laboratorio a cielo aperto, con episodi che andranno avanti fino a novembre, compreso un centro di ricerca costantemente accesso. Ed un’attività/attivismo che ha già portato alla stesura di documenti importanti (quale il Manifesto per l’Architettura dell’Adattamento, sottoscritto per primo dal premier spagnolo Pedro Sánchez). Oltre che a una granaglia continua di iniziative, costantemente capitanate da un Ratti networker democratico, instancabile (è montanaro, di Merano), senza requie.
La divisione in tre sezioni dell’Arsenale – basata sull’accento sulle tre intelligenze: naturale, collettiva, artificiale – porta alla fine inevitabilmente alla fusione delle stesse per approdare come in un gioco di prestigio alla scomparsa della necessità di una intelligenza grandiosa e machista in favore di una più umile azione consapevole di “adattamento”, appunto, inevitabile dopo incendi quali quelli spagnoli o californiani degli ultimi mesi.
Ora viene il lavoro vero. Un pensiero né artificiale, né emozionale e nemmeno legato all’intuizione. «Abbiamo bisogno di uno strato cognitivo più evoluto. Meno basato sul controllo e più sul cambiamento istantaneo dei codici. Tra logica, emozione, miti e frequenze culturali», scrive la strategista Zoe Scalman.
Meglio orientare, piuttosto che predirre, ci sussurra anche la Biennale. Per questo l’estetica – che invece c’è eccome, vedi l’ottimo sistema installativo a colonne disegnato dai berlinesi Sub – si orienta verso l’accrocchio e l’accattastamento, il riparo/rifugio e il guscio, il materiale puro di costruzione. Si prevedono tempi dai quali ripararsi, non esistendo futuro. Il “presente esteso” va tutto costruito. Per questo materie di ogni provenienza sono mischiate, condensate e in parte distillate, come il meccanismo che pesca acqua dalla laguna e la utilizza per fare il caffè, che non a caso ha vinto il Leone d’Oro (operazione capitanata dalla leggendaria firma della newyorkese Liz Diller, quella dell’High Line).
Due mostri sacri dell’idea di ibridazione come creazione di “famiglie” di nuovo tipo che incorporano la qualsiasi, quali Donna Haraway e Italo Rota vengono premiati – alfieri assoluti di questo pensiero – con i Leoni d’Oro alla carriera, nel secondo caso postumo.
Dove l’informe si adatta
Insomma, il migliore dei tempi presenti sboccia dove l’informe si adatta a ciò che c’è già e lo ‘”cura”.
In un mercato saturo di cose già fatte o da fare, che senso avrebbe avuto metterne altre, almeno se applichiamo l’ecologia anche alla conoscenza? Tanto vale sperimentare tra ciò che non va più diviso, dal punto di vista delle discipline scientifiche da incrociare una volta per tutte (ripetiamolo) e offrire al cittadino mondiale al “planetary citizen”, parte di quei “global tools” per improvvisare barriere e chissà forme di evoluzione inedita del vivere, nessuno escluso, non-umani in primis.
«Carlo Ratti ha portato a casa il risultato – scrive l’esperto di innovazione Stefano Mirti – entri all’Arsenale e sembra di essere finiti dentro un filmato generato da Midjourney. Un affascinante e denso frullatore con mille idee, spunti, suggestioni. Dal robot del futuro all’artigiano intagliatore, digitale, 3D, antichi mattoni, schermi, modellini tipo “Spazio 1999”, piante e molto altro ancora. Una passeggiata molto godibile e ben congegnata. È vero: non c’è architettura (e non c’è neanche alcun pensiero architettonico). Ma è meglio così: è da anni che gli architetti non hanno niente di interessante da dire. Un’edizione molto democratica: nomi importanti e gente sconosciuta, sovrapposti e incrociati, dove non capisci mai chi ha fatto cosa. Anche, notevole, per una volta non abbiamo la stucchevole parata dei “grandi nomi”. Uno specchio che riflette in maniera plausibile e ingegnosa il presente, nel bene e nel male».
Concordiamo su tutto, e sulla totale radicalità dell’operazione. Mai avere paura di quello che a prima vista appare malleabile, poco definito, sabbioso. E lì dentro ci siamo noi, così come siamo messi in questo momento.
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