Prima di diventare l’ultimo film di Luca Guadagnino, Bones & All è un romanzo di Camille DeAngelis, apparso originariamente in Italia nel 2015, nella traduzione di Elena Cecchini, e da poco ritradotto da me per Mondadori. È la storia, ambientata nel mondo reale, di una giovane ghoul: una ragazza per il resto normale, che ogni tanto per ragioni mai chiarite prova il bisogno irresistibile, soprannaturale, di divorare interamente un essere umano – e lo fa. Abbandonata dalla famiglia, si lancia in un road trip nel continente americano, per capire se al mondo c’è un posto anche per qualcuno di mostruoso come lei.

È un romanzo complesso e delicato, in modi che spesso risultano difficili da mettere a fuoco sotto la violenza immaginativa e la potenza metaforica del tema del cannibalismo. All’interno dei confini piuttosto rigidi della narrativa young adults, DeAngelis riesce a ribaltare la struttura canonica di un certo tipo di storia di formazione, scrivendo quasi clandestinamente, al suo interno, un manifesto vegano-femminista. Le ho chiesto – con qualche spoiler – di parlarne. «Era l’inizio del 2011. Avevo fatto una cosa un po’ stereotipa da ragazza bianca – un anno in India alla ricerca di una trasformazione interiore – e sono finita a lavorare ad un progetto di riforestazione in cui erano tutti vegani», racconta. «Io ero vegetariana da molto, e una serie di conversazioni mi hanno convinta a diventare vegana. È una delle migliori decisioni che abbia mai preso. E in qualche modo nel corso di quell’estate mi è venuta l’idea di una storia d’amore fra due cannibali».

Già la lettura del libro – come la visione del film – è un’esperienza piuttosto stomachevole. Ci sono scene disgustose. Come è stato scriverle – specie per una vegana?

 Schifosissimo! Ma dovevo andare avanti – l’idea non mi mollava, mi aveva azzannata. Ma in un certo senso è qualcosa che provo sempre, quando scrivo un libro che so che finirò.

Una cosa che colpisce molto alla lettura è una domanda sui generi letterari. Sin dalla prima pagina ti chiedi come sarà spiegato il cannibalismo dei protagonisti: se con una qualche mutazione (e allora sarebbe un libro di fantascienza) o con la magia (e allora sarebbe fantasy). E invece non spieghi niente, mai! A un certo punto è spiazzante, ma andando avanti l’ho trovata una scelta efficacissima. Più che fantasy o fantascienza, sembra realismo magico.

Esatto! Ricordo che una volta un lettore me lo ha chiesto. «Sai quante calorie ci sono in un corpo umano? Come fanno a restare magri?»([ride). È una cosa che ho capito molto presto, scrivendo fantasy, già in università: le regole del tuo mondo vanno stabilite da subito, dalla prima pagina. Ma questo, in qualche modo, ti permette di naturalizzarle, e ti libera dalla necessità di spiegare. Mi sembra che funzioni bene. Pochi giorni fa una lettrice mi ha scritto per ringraziarmi: è raro, ha detto, che ci si fidi dell’intelligenza dei lettori adolescenti, che non sia tutto spiegato, che gli si lascino dei vuoti da riempire con l’immaginazione.

Quindi per te questo è nato come un libro per giovani adulti?

Sì, l’ho sempre concepito così, anche se in questo caso si è rivelato un romanzo anche per adulti. È qualcosa che mi piace molto: scrivo per la persona che sono stata. Mi chiedo, all’epoca, che storia mi avrebbe dato conforto? Cosa mi sarebbe servito per aiutarmi a gestire le mie emozioni più scomode, cosa mi avrebbe dato spazio per capirmi?

Wow, e la risposta è: la storia di una cannibale!

(Ride) Penso di averci messo dentro moltissima rabbia: una rabbia che all’epoca ovviamente non capivo, ma in cui a posteriori vedo anche una componente femminista. Mi ci sono voluti anni per metterla a fuoco. E naturalmente c’è dentro tutto il disagio che provavo, anche una forma inconscia di odio per me stessa che nutrivo a quell’età.

Questo è un aspetto fortissimo, nel romanzo, e per certi versi è ciò che lo rende rivoluzionario rispetto a molta letteratura young adults: più complesso, per dir così. È abbastanza comune, in quel genere, che una storia parli di un emarginato, di un “diverso”, che alla fine delle sue peripezie scopre di meritarsi di essere amato e accettato, capisce di essere come tutti gli altri. Tu fai qualcosa di molto più azzardato dal punto di vista morale. Gli emarginati di cui scrivi sono effettivamente mostruosi. Cioè, ci sono ottime ragioni per cui un cannibale non merita di essere amato.

Esatto! Molte storie per ragazzi parlano di un outsider che alla fine viene accettato, trova la propria comunità. Che è importantissimo: ma anche quando la trovi, ti resta dentro quella cosa di cui ti vergogni, quale che essa sia. Tu stessa non lo sai: ma ti senti sempre un minimo inadeguata, fallata, c’è qualcosa in te che non va. E magari ti rendi conto di meritare di essere amata, ma continui a percepire in te stessa qualcosa di mostruoso, qualcosa di impossibile da amare. Era questo che cercavo di rappresentare con l’idea dei cannibali. È una contraddizione, per molti versi. È stata molto difficile da rendere letterariamente. Come faccio a rendere positivo un personaggio mostruoso?

È in questa contraddizione che entra in gioco la dimensione femminista?

Sì. Non è mai qualcosa di esplicito, ma diciamo che spesso Maren reagisce a delle circostanze ambigue, al limite dell’accettabile, o al di là. Anche nel film è ben chiaro, ma nel romanzo c’è un elemento in più: è l’ultima scena, che nel film non è presente. C’è un ragazzo che la segue in una stanza appartata, chiaramente vuole approfittarsi di lei; ma lei ribalta la situazione e gli dice esattamente chi è e cosa gli succederà: chiede il suo consenso per divorarlo, in qualche modo. E questo è l’unico lieto fine possibile: deve essere onesta con gli altri sulla propria natura, perché non può cambiarla.

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Forse questa è una delle differenze cruciali fra libro e film. Nel libro è chiaro che Maren alla fine accetta il proprio cannibalismo. Ed è l’unica: gli altri personaggi ne risultano pervertiti, sono condotti all’autodistruzione o alla follia… Maren invece decide di conviverci. Ma c’è un problema: questo, insomma, la rende malvagia, no?

Be’, un po’, sì. È abbastanza malvagia (ride). Non so bene cosa aggiungere. In un certo senso è la sua unica possibilità, perché vuole vivere. Vuole migliorare, vorrebbe essere normale: ma non può. E questa via del consenso e dell’accettazione era l’unico compromesso possibile. Spesso i lettori mi scrivono per lamentarsene, dicono che avrebbero voluto un lieto fine. Avrebbero voluto che “guarisse”. Ma è lei: non può guarire.

Anche questo è un po’ diverso, nel film, no? Dall’epilogo, lì, non è così chiaro il percorso di crescita di Maren. La narrazione si concentra sulla fine di Lee, di cosa faccia lei dopo non sappiamo niente.

Be’ questo era inevitabile: per dare tenuta al film era necessario mettere in primo piano la storia d’amore. Ma mi è parso del tutto naturale, e sono felice del risultato. Prima di scrivere la sceneggiatura, David Kajganich mi ha chiesto quale fosse l’aspetto a cui tenevo di più. Si aspettava che dicessi l’elemento femminista, e invece ho risposto che era il messaggio animalista. Se resta quello, ho detto, puoi fare tutto ciò che vuoi. E Dave lo ha mantenuto in maniera davvero efficacissima. C’è tutta una serie di tocchi minimi, impliciti, davvero geniali. Ad esempio la scena dei polli. Sully (interpretato Mark Rylance, Ndr) ha appena conosciuto Maren, e le prepara una specie di timballo di carne. Tira fuori i polli dal frigo e li schiaccia per frollare la carne. E il suono che fanno quei poveri corpicini – un suono raccapricciante, viscido, appiccicoso – è esattamente, esattamente lo stesso che si sente dopo, quando sono in stanza e stanno divorando il corpo della padrona di casa. Non so in quanti l’abbiano colto, ma per me è davvero potentissimo. Quando l’ho visto ho pensato: ecco, questa è la ragione per cui ho scritto questa storia. È meraviglioso. Non poteva essere più chiaro di così. 


Bones and All (Mondadori, pp. 312, euro 15) è il libro di Camille DeAngelis da poco disponibile nella nuova traduzione italiana di Vincenzo Latronico

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