Bones and All, fino all’osso, ovvero mangiare un essere umano per intero. Pasto completo: è questa la soglia, pare sia questa la soglia rilevante nell’esperienza dei cannibali, esseri umani segnati dall’incontenibile pulsione a mangiare il corpo di altri esseri umani.

Esseri umani come Maren (Tylor Russel) e Lee (Timothée Chalamet), i protagonisti del nuovo film di Luca Guadagnino, tratto dal romanzo di Camille DeAngelis, in arrivo il 23 novembre al cinema, dopo la vittoria del Leone d’argento a Venezia.

Una storia d’amore e di formazione soprattutto interna, dato che la formazione qui sta nella presa d’atto, nell’accettare di aver bisogno anche di ciò che non si vorrebbe mai accadesse.

Una storia di bambini che divorano le babysitter, figli che mangiano i padri, madri che si mutilano e lasciano inghiottire dall’altrove per non far del male ai figli: un film estremo, si è detto, quando in realtà lo è soprattutto nella volontà di investigare a pelle nuda e anzi divelta la natura del desiderio umano, forza che spinge in avanti, e crea relazione, ma che sistematicamente anche sbrana e dilania, che attrae e seduce, e poi inghiotte e passa oltre, e ancora oltre.

Abbiamo parlato con Guadagnino della genesi di questo suo quinto lungometraggio, il primo girato negli Stati Uniti, a partire dall’iniziale riluttanza all’idea di dedicarsi a un tema così ingombrante.

© 2022 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

Perché hai scelto di dedicarti alla storia d’amore tra due giovani cannibali?
L’idea di fare un film tratto dal romanzo di Camille DeAngelis mi precede. È qualcosa che hanno immaginato per primi David Kajganich, autore della sceneggiatura, e la nostra prima produttrice, Theresa Park, che aveva opzionato i diritti del libro. Quando David mi parlò la prima volta di questa storia degli amanti cannibali a me in realtà aveva lasciato indifferente.

Cosa non ti convinceva?
Non sono uno a cui interessa lo shock. Poi, due anni dopo, sapevo che lui stava sviluppando il film con un altro regista, Antonio Campos.

David un giorno mi chiama e mi dice che Campos avrebbe lasciato per motivi personali. Per un attimo ho fatto resistenza: anche perché in quel momento, come sempre, ero impegnato con più progetti in contemporanea.

David ha insistito, e siccome lui è un grande scrittore, gli ho detto: “Ok, per curiosità la leggo”. Me la manda, comincio a leggerla e mi travolge. Solo dopo ho capito i motivi.

Quando hai capito cosa?
Ho fatto vedere una prima versione non finita del film ad alcuni amici.

Non avevo capito che c’è una linea comune nelle cose che istintivamente vado a scegliere, una linea mi porta verso personaggi che vivono grandi solitudini, non interessati al centro delle cose e del mondo.

Mi piace l’idea di questi personaggi al margine, e devo essere sincero, anche con le persone è così. Mi considero io stesso una di queste.

Quindi l’aggancio è stata la risonanza coi personaggi.
Personaggi così commoventi, nel mondo di questo Midwest di fine anni Ottanta: non avevo mai messo in scena l’America, è il mio primo film girato lì, e mi sembrava un buon modo per entrarci.

Leggendo la sceneggiatura poi ho visto subito nel personaggio di Lee il mio Timothée, quella è stata veramente la molla che mi ha fatto dire: “Sai che c’è? Se posso fare un nuovo film con lui, che mi ispira molto e a cui voglio un bene profondo, allora lo faccio”.

Gli ho passato la sceneggiatura e la sua reazione è stata di entusiasmo. È lì che il film è diventato realtà.

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Cosa ti piace di Timothée Chalamet?
Ha la capacità di essere proiettato sempre in un coraggioso desiderio di esperimento.

Lui ritiene che essere la star globale che è, così ricercata, desiderata, amata, sia la chiave d’accesso per mondi ancora più provocatori e sperimentali.

Sceglie di lavorare con registi con una visione molto precisa, ama lavorare su icone e codici massimalisti.

Non credo scelga un film solo per il personaggio che dovrà interpretare: ha un’idea più globale del cinema e usa la propria fama per spingere progetti complessi o visionari. Fare le cose con lui è sempre bello, e liberatorio.

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Le tue ossessioni poetiche ed estetiche: dicevi della solitudine, dell’emarginazione. Si potrebbe aggiungere anche l’adolescenza?
A dire il vero penso che tutte le età della vita siano belle da raccontare. Non credo di avere un particolare interesse per l’adolescenza, per quanto potrei essere contraddetto dalla prova provata dei lavori fatti finora, in cui i protagonisti in effetti sono adolescenti.

Di certo nell’adolescenza esiste questo spazio incredibile e universale della trasformazione, una sorta di loop che viene messo in atto dall’adolescente per la morte del proprio sé bambino e la paura, ma anche l’aspettativa piena di meraviglia, per ciò che diventerà.

Nell’adolescenza c’è quindi già insita una misura molto cinematografica, perché il cinema si occupa sempre delle metamorfosi, dei passaggi di stato.

Detto questo, in generale mi piacciono le persone, quindi spero che, al di là in effetti dei miei tanti personaggi adolescenti, passi questa mia passione indiscriminata verso gli esseri umani.

Il tema del cannibalismo è l’aspetto macro del film, di cui tutti parlano, insieme concretissimo e metaforico.

Si lega al tema della diversità che spaventa, del mostro, anche se nel film, più che la discriminazione, lo sguardo degli altri, pesa il sentirsi mostruosi, la paura di sé.

Penso coincida anche con il concetto di segreto, col guardarsi dentro o non volersi guardare dentro. La protagonista, Maren, fino a un certo punto non sa neanche chi è, cos’ha fatto e cosa prova.

Viene ricondotta al sé da una specie di terapia psicanalitica che il padre le impone tramite una musicassetta con la sua voce registrata.

È sempre una condizione violenta quella di sentirsi dire da un altro chi siamo: resistiamo alla verità esterna che ce lo comunica, quasi rifiutandola fino all’inesorabile necessità di confrontarci con ciò che ci viene messo sotto gli occhi.

Sicuramente il film è più su un’interruzione interiore, una problematizzazione intima, che su un conflitto con l’esterno. Io non credo molto all’impedimento esteriore: l’impedimento più grande viene sempre da dentro.

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L’appartenenza alla comunità queer e la rappresentazione delle identità non conformi oggi godono di una certa fortuna mediatica. Credi si possa creare, soprattutto per chi appartiene alle comunità marginalizzate, una tendenza a ripetere e ripetersi, a reiterare quelli che sembrano per certi versi essere già diventati dei cliché?
I discorsi dell’attualità mi interessano poco. Con le news ho un rapporto un po’ da casalinga: come un flusso di voci che mi passa accanto, una radiofonia che ascolto passivamente.

Poi il discorso mainstream per me è sempre un discorso sbagliato, perché parte sempre da una cancellazione della complessità e da un necessario appiattimento delle cronologie. Ritengo che il discorso revanscista, basato sulla contrapposizione generalizzata, sia concettualmente povero, che non riesce a guardare alla globalità delle personalità e del reale.

Cerca di ricondurre tutto a una sorta di universale, una soffocante imposizione del pensiero che ha una misura un po’ piccolo-borghese, come si diceva un tempo.

Allo stesso tempo però io sono anche un vecchio militante: frequento la cosiddetta diversità, in ogni sua forma, da quando sono bambino. Mi attrae profondamente. E sono incendiario quando si parla di libertà e diritti.

Mark Rylance as Sully in BONES AND ALL, directed by Luca Guadagnino, a Metro Goldwyn Mayer Pictures film. Credit: Yannis Drakoulidis / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2022 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.

Te lo chiedevo perché oggi l’appartenenza sembra richiedere di stare dentro uno schema, tendenzialmente morale, politico, e questo, se ci si dedica all’immaginazione, se si raccontano storie, può essere un limite.
Questo perché il conformismo non appartiene solo all’identità normata/normativa: il conformismo è purtroppo una vocazione della maggioranza, di ogni nuova maggioranza.

Come dicevano Jeanne Moreau e Nanni Moretti: da quando ho capito che la maggioranza ha sempre torto preferisco stare con la minoranza.

Il film, nella solitudine dei due adolescenti protagonisti abbandonati dalle famiglie o distruttori delle stesse, offre anche una chiave di lettura generazionale.

Oggi si discute tanto di questo: Teresa Ciabatti nell’introduzione all’antologia curata per Solferino, Data di nascita, parla proprio della “generazione cresciuta da sola”, quella per cui “diventare grandi non è stato un passaggio bensì una realtà fin dall’inizio, una condizione a cui adattarsi”.
Tutti i personaggi del film vivono immersi in una profonda solitudine. Io la penso come Lukács: essere una persona significa essere soli.

Tutte le figure di questo film sono schiacciate da un isolamento devastante: penso a Sully e alla sua incapacità di decifrare i segni che gli arrivano da Maren, e quindi l’ostinazione a voler interrompere la sua solitudine imponendosi, con le buone o con le cattive.

Penso alla nonna di Maren, chiusa in quella casetta tutta in ordine per tenere lontanissimo il perturbante che l’ha travolta. Sono tutti personaggi radicalmente soli e questo è interessante anche in riferimento agli Stati Uniti e alla loro cultura, perché l’America coltiva da sempre l’individuo in maniera sfrenata. Premiando in maniera così intensa l’individualismo gli americani restringono il campo dell’interazione sociale.

Il sentimento di solitudine nella vastità circostante è molto americano: un aspetto su cui, passando tanto tempo lì per le riprese, ho riflettuto a lungo. Mi interessava cercare di restituirlo sulla scena.

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È vero che vi siete avvalsi di alcuni patologi per comprendere i banchetti dei cannibali?
Ricorro sempre a consulenti ed esperti nei miei film: per me mettere in scena un mondo finzionale significa partire da un dato schiacciante di realtà.

Ho bisogno di avere la maggior quantità possibile di conoscenza. Così, dovendo rappresentare i pasti dei cannibali mi sono chiesto proprio cosa vuol dire mangiare una persona: non avevo idea di cosa significasse addentare una persona appena morta, un corpo umano crudo.

Abbiamo contattato diversi specialisti e abbiamo scoperto un sacco di cose: che la pelle umana è molto dura, che ci vuole un sacco di energia mandibolare per staccare la carne di un cadavere, che non ha un buon sapore, che la parte migliore è quella in cui c’è più grasso.

Sono tutte informazioni che, anche se non emergono in maniera evidente agli occhi di chi guarda il film, sono state utili a ognuno di noi: per me e per gli attori, ma anche per truccatori e tecnici del suono.

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Forse la battuta del film che rimane più tocca e resta è quella pronunciata dalla madre della protagonista, in momento molto intenso e concitato: “Non c’è posto per i mostri nel mondo dell’amore”.
Posso essere sincero? È una frase che amo moltissimo, ma non so da dove arriva. Era di sicuro nella sceneggiatura, quindi penso che sia di David Kajganich, che ha una capacità spiccata per dialoghi e frasi da mettere in bocca ai personaggi.

La madre di Maren dice questa cosa che in realtà tutto il film cerca di confutare: la dialettica tra quella battuta così icastica e la confutazione di questa stessa idea è la ragione per cui esiste questo film.

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Bones and all è certo anche un film sul desiderio, o meglio sui risvolti più ambivalenti e proprio oscuri del desiderio. Noi siamo abituati dall’infanzia, dalle fiabe, a interpretare il desiderio in chiave solo positiva, legato alla felicità, quando invece ha sempre – e non c’è bisogno di essere cannibali – una carica divorante.
Rifletto sempre sul desiderio. Il mio, quello dell’altro, il desiderio dei personaggi.

È un motivo che torna sempre nel mio lavoro. Sicuramente il desiderio non è sempre luminoso, mi interessa esplorarne l’ampiezza: abbiamo fatto un idillio con Call me by your name, e ora abbiamo fatto una favola nera.

Qual è il rapporto che hai intercettato tra il desiderio e i luoghi in cui è ambientata la storia, ovvero il Midwest?
Andando in giro per gli Stati Uniti e cercando di comprenderli più che potevo – li frequento ormai da più di venticinque anni, ma non ero mai stato così a lungo e così in profondità nel centro – ho capito con precisione che esiste uno spazio del perturbante nel reale americano.

Ad esempio, in alcune di queste comunità in cui abbiamo girato, che magari fino agli anni Sessanta erano benestanti e che piano piano, con la guerra del Vietnam e il reaganismo, sono crollate, tu vedi le vestigia di un passato glorioso, la resistenza in alcuni scorci del decoro, e poi vedi l’abbandono totale.

Quest’unione tra un senso di comunità che cerca di tenere in piedi una specie di dignità e le ferite profonde del capitalismo, il tutto poi sopraffatto dalla natura, che in America rimane potente.

C’è un’immagine che ti sei portato dietro più delle altre?
Una accanto all’altra case messe male ma ancora abitate, con lo sforzo di mantenere un minimo di decenza e di cura, e poi case diroccate, rifugio di branchi di avvoltoi.

Una specie di collasso nello stesso punto del realismo americano alla Hopper e del gotico alla Poe, con in più gli effetti dell’ultracapitalismo, più chiari che in un saggio di Noam Chomsky. Ho imparato che l’America è un libro aperto: quello che succede si incarna in immagini.

Chiara Valerio in un pezzo di qualche giorno fa ha scritto che forse il presente – con le sue questioni legate, non solo all’identità, ma anche al rapporto con l’ambiente e le risorse in esaurimento – si capisce meglio andando negli Stati Uniti, dato che noi, in Europa e soprattutto in Italia, abbiamo una specie di torcicollo congenito per cui tendiamo a occuparci più del passato.
Ho amato l’analisi di Chiara Valerio: quando mi imbatto in riflessioni così fascinose applicate al mio lavoro sono onorato. Non credo sia compito dei cineasti commentare il proprio lavoro, quello che posso dire è che la misura del tempo per me, quando faccio un film, non è mai quella dell’attualità. Non dico affatto che non si possa leggere un lavoro artistico attraverso l’interpretazione del reale in cui stiamo vivendo, però la flagranza di un film degli anni Trenta può essere tale da risultare più attuale di quella di un film fatto oggi. E questo a me interessa molto.

Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
Sto finendo un film che ho girato quest’anno a Boston con Zendaya. Si chiama Challengers, è un film più leggero questa volta, ambientato nel mondo del tennis.

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