Con Bones and All, il suo ultimo film presentato in concorso alla mostra del cinema di Venezia, Luca Guadagnino compie un passaggio in realtà molto naturale della sua carriera di regista. Esce dal paesaggio antropizzato italiano ed entra negli spazi vuoti degli Stati Uniti, con un cast totalmente americano. Il film si apre col ruggito del grande leone della Metro Golden Mayer, che distribuisce il film, forse il sigillo più roboante – letteralmente – del cinema hollywoodiano (per quando felicemente distonico con il film stesso). È una carriera, la sua, che va quindi letta dagli esordi allo stato attuale.

Quand’è la prima volta che ti sei chiuso un occhio per mimare la macchina da presa?
Credo che la prima volta che ho fatto questo gesto non l’ho fatto per mimare la macchina da presa, ma l’ho semplicemente fatto all’età di nove o dieci anni, quando ho ottenuto in regalo da mia madre una cinepresa Super 8. E ho chiuso l’occhio per guardare nell’obiettivo. 

Cioè, stai dicendo che lo hai fatto già tecnicamente…
Sì… intuitivamente, in quel momento, immagino, ma certamente l’ho fatto con l’intenzione specifica di guardare nell’obiettivo di una cinepresa. 

Quindi di fare cinema. 
Beh, in quel caso di sognare di farlo, penso, no?

Ma perché volevi la camera?
Perché la trovavo e ancora oggi la trovo una macchina che ha una potenza erotica verso di me enorme. Ogni volta che io vedo una cinepresa, tocco una cinepresa o riprendo con una cinepresa, inquadro con una cinepresa, sento una connessione chimica con questo oggetto di puro erotismo. E sono certo che quando vidi la Super 8 nella vetrina dell’Ottica Randazzo di Palermo nei primi anni ’80, ebbi una delle mie prime epifanie erotiche. 

E significa che penetri la macchina o che ti penetra o ovviamente tutti e due?
Mi piace pensare che la cinepresa sia una pura estensione del mio occhio, della mia capacità di guardare le cose coi miei occhi fisici. La cinepresa funziona come un traduttore di ciò che io vedo, di ciò che io sento, che è intimo, personale, e solo attraverso la cinepresa diventa pubblico. 

Quando hai iniziato a guardare in un certo modo, a osservare con estrema attenzione tutto ciò che vedevi intorno a te?
Penso da sempre. Ricordo in maniera forte una volta che ero a una festa dei miei genitori, e avevo sei o sette anni, e la mia forma di scrutamento delle cose mi portò a un momento di stand off messicano con un ospite che mi fissava negli occhi. E io non abbassai mai lo sguardo. 

E come finì?
Vinsi io. L’ospite abbassò lo sguardo. 

Eri vestito da bambina?
Eh no. Ero vestito da bambino. 

Qual è la tua progressione tecnica nella conoscenza delle cineprese? Perché è stupido pensare che non avendo tu una formazione da Centro sperimentale ed essendoti laureato in Lettere a Roma…
Ma io incontrai nel 1991 Jean-Marie Straub e sua moglie Danièle Huillet, i due grandi maestri, maestri assoluti, e in una chiacchiera che facemmo a questa cena a cui ero stato invitato da un’amica, entrambi mi dissero che avendo io già manovrato una cinepresa Super 8 ed essendo io convinto di fare questo mestiere, non avevo alcuna necessità di frequentare alcuna scuola di cinema. E avevano ragione. 

Quanti anni avevi?
Avrò avuto 20 anni. Io ho passato la mia adolescenza sognando disperatamente di poter avere delle cineprese o delle telecamere. Quando poi però ho messo mano a una telecamera, in quel caso era una VHS Compact – perché la tecnologia era quella, poi è arrivata la Hi-8 – in ogni caso quando è successo ciò, mi sono reso conto che non potevo assolutamente pensare di lavorare con il sistema video e che l’idea di possedere una cinepresa, che costava un sacco di soldi, era un’idea cretina e non aveva nessun senso. E da lì è nata, da un certo punto di vista, la mia dimestichezza col meccanismo delle macchine da presa, proprio perché non ho avuto più bisogno feticistico di possederle.

Un conto è possederle e un conto è averne l’expertise. Come l’hai formata?
L’ho formata facendolo. Come l’amore, ti impari a fare l’amore facendolo. Chi te lo dice come si fa? Lo fai. 

No, abbiamo tutti imparato dalle riviste pornografiche, e da quel cinema.
Non io, gioia mia. Guarda che imparare il sistema della macchina da presa, il sistema delle lenti, il sistema dell’esposizione, dell’otturatore, il sistema dell’utilizzo della pellicola, degli ASA della pellicola, sono tutte nozioni molto limitate e che non hanno necessità di grande tempo per essere imparate. Diventa un automatismo. Io ragiono nella mia testa continuamente in base alle lenti, per esempio.

LaPresse

Qual è la tua preferita?
Diciamo che va a periodi, per molto tempo ho amato moltissimo il 35 mm, non il formato di ripresa ma la lente. Era la lente preferita di Fassbinder. Adesso sono molto innamorato della…

E perché tu la amavi?
L’amavo perché aveva una intimità e contemporaneamente una capacità di visione larga ma non esagerata o distorcente. Mi dava un senso di soggettività molto forte. Da un po’ di tempo a questa parte sono appassionato della lente 25, ma anche della lente più larga ancora che è il 18. Trovo invece che l’utilizzo delle lenti lunghe sia un po’ comodo, perché schiacciando i fondi rende tutto più accattivante. E, diciamo, solleva la messinscena dalla responsabilità di sapere cosa stai facendo veramente, ovvero di riempire il quadro. 

Quando – da quel punto in poi – hai iniziato a guardare davvero il cinema, passando da cinefilo alla posizione di chi entra fortemente anche nelle tecnicalità del film, cioè quando l’occhio di chi vedeva, l’occhio dello spettatore, si è unito all’occhio di chi faceva? 
Purtroppo, a partire dalla intensificazione della mia attività di cineasta, ho cominciato a guardare al cinema con un maggiore disincanto. Però c’è da dire anche che i grandi film e i grandi capolavori sono sempre film e capolavori misteriosi e, per quanto tu possa aver fatto cinema tutta la tua vita, se un film è un grandissimo film, quando lo vedi la prima volta non sai come lo hanno fatto. Per esempio posso fare un riferimento molto calzante, perché è successo recentemente: ho visto per la prima volta un film che non avevo visto quando era uscito e mi ha fatto letteralmente saltare sulla sedia e mi ha sconvolto, il cui sistema di messinscena e di riflessione del cineasta mi è sembrato molto misterioso. È il film di Claude Chabrol, Betty, con Marie Trintignant. Quel film, che è un capolavoro, è un film – anche io che ormai ho 30 anni di attività alle spalle – dove non sapevo dire come Chabrol avesse immaginato quel film e come l’avesse messo in scena. L’ho rivisto altre tre volte in un mese, quindi quattro, per poter, come dire, per imparare la lezione dal punto di vista tecnologico del film e dal punto di vista del pensiero del cineasta. Un capolavoro straordinario. 

Uscendo dalla cinepresa, andiamo sui movimenti della camera, i carrelli e il resto.
Guarda, avevo fatto un cortometraggio quando avevo 17 anni che si chiamava Over Passion, mi vergogno moltissimo del titolo…

No, perché il titolo è rivelatore del meraviglioso piccolo essere tamarro che c’è ancora nascosto in te per fortuna e che non è andato via. Over Passion c’è ancora…
Va beh, comunque quel cortometraggio era un piccolo cortometraggio con il quale volevo raccontare un bacio tra due, uno e una, che alla fine mentre si baciavano cominciavano a sputare sangue ed è la prima volta che ho preso la macchina da presa – che in quel caso era una videocamera VHS Compact – e mi sono avvicinato ai personaggi muovendola. E lì è stato uno shock tremendo, È stato il mio battesimo del fuoco. Però considera che ero già cinefilo agguerrito, avevo visto un sacco di cinema a quell’epoca e quindi muovere la macchina era una cosa di grande difficoltà e nello stesso tempo era una cosa che amavo molto nel cinema. Ero un grande amante di Brian De Palma, per intenderci. Lo sono ancora. I movimenti di camera sono una prerogativa assoluta del mio mestiere, perché – per dirla con Diana Vreeland – l’occhio deve viaggiare. E quindi o viaggia stando fermo o viaggia muovendosi, ma deve viaggiare. Io ho molta fiducia nei miei collaboratori e amo molto vedere cosa fanno, ma sul movimento della macchina da presa o sulla posizione della macchina da presa, per essere più precisi, non lascio spazio alcuno a nessuno.

Secondo te qual è stata l’evoluzione vera del tuo percorso, dal corto Qui a Bones and All 
Semplicemente essere stato in grado di imparare ad amare il cinema e a non preoccuparmi. Ovvero lasciare perdere di vista le rabbie e le frustrazioni della macchina che non funziona. Sapere che tutto alla fine funziona. E contemporaneamente avere sempre più fiducia estrema e kamikaze nel proprio intuito. Nel mio intuito. 

Non mi sembra kamikaze. 
Beh, io ti dico che la vedo così, poi magari…

Diciamo che è bene che tu lo dica. Vuol dire che sei ben disposto rispetto a un tuo possibile fallimento, anche solo di un singolo lavoro. 
Da un certo punto di vista è una delle cose che temo di più e la temo perché ho la sensazione che sia necessariamente inevitabile. Quindi, quando ricevo dei fischi, in effetti sono deliziato, perché mi dico: forse questo fallimento è arrivato e ce lo siamo tolti dalle palle. Le palle, nel caso mio, perché ce le ho. 

Stai riferendoti alle tue capacità o ci stai riversando nella tazza il brodino della questione biologica del genere?
Né l’una cosa né l’altra. Cercavo di giustificarmi per la volgarità dell’espressione.

Non abbiamo parlato del montaggio. 
Parliamone.

Mi interessa il momento in cui tocca rinunciare a delle scene.
Sono ben felice di tagliare. Un’altra cosa che ho imparato mano a mano fino a Bones and All è non essere innamorato del mio girato ed essere pronto a sacrificarlo sull’altare della qualità di ciò che faccio, cioè il film.

C’è una gigantesca questione etica nel fare cinema, pare evidente.
Jacques Rivette. aveva aggredito il nostro Gillo Pontecorvo che aveva girato un’inquadratura di Kapò su un carrello che arrivava dritto verso la rete elettrizzata, dove una prigioniera ebrea che viene trucidata rimaneva fulminata e la macchina da presa andava dritta verso di lei, come se fossimo in un suspense thriller. Secondo Rivette quel carrello era immorale. Negli anni in cui Rivette pronunciava queste parole il dibattito era sincero e autentico e capire il linguaggio cinematografico era una condizione fondamentale anche dello spettatore diciamo medio. Oggi parlare in questi termini del cinema e della forma del cinema e delle scelte dei registi viene visto con grande sospetto se non con sufficienza.

Tu fai parte di questa tradizione?
Io mi ritengo fondamentalmente rivettiano in questo. 

Contemporaneamente questo ribadiva la natura profondamene politica del cinema.
Che è stata dimenticata, messa da parte, si è creduto che la natura politica del cinema sia semplicemente nelle storie, se hanno un tema politico. Per cui che ne so, film come Vice son considerati politici. Quando in realtà tutto è politico. E in effetti, per esempio, tornando a Chabrol, questo straordinario film Betty, tratto da Simenon, è uno dei film più stupendamente politici del maestro francese. 

È possibile leggere Bones and All come un film (appunto) politico che ci parla anche dell’Italia e di un possibile trionfo di Giorgia Meloni?
Guarda, il film si svolge nell’America degli anni ’80, alla fine del doppio mandato di Reagan. Accade proprio durante la campagna elettorale, quella che poi fu vinta da Bush senior.

E c’era già nel romanzo originario?
Credo che nel romanzo fosse un pochino precedente, noi lo abbiamo spostato un po’ in avanti nell’88. Diciamo che l’idea reaganiana della fine della storia e contemporaneamente del benessere perenne – e contemporaneamente della soppressione un po’ anni ’50 dei contrasti, delle punte – è una linea che è stata molto ben imparata da parecchi a partire da lì, e che ha sedotto molti votanti in giro per il mondo. Quest’idea reaganiana di un liberismo o di un ultraliberismo felice e della fine del contrasto e dell’immaginazione che sovverte le cose è stata ben appresa, no? Il più grande reaganiano dal punto di vista dell’idea della società è stato Silvio Berlusconi. E la signora Giorgia Meloni è stata ministra di Berlusconi. Quindi in qualche strano modo questo futuro potenziale governo Meloni – che sembra una sorta di notte dei morti viventi con questo ritorno di cadaveri politici in una sorta di eternità inamovibile – non so se possa corrispondere al luogo in cui accadono le cose di Bones and All, ma certamente rappresenta un’ennesima forma di arteriosclerosi della società della politica italiana. La società italiana è molto più avanti della politica. 

Perché? Cosa te lo fa dire?
Me lo fa dire l’incontro che ho con il reale, quando vedo le persone, ne parlo con loro, vedo cosa accade. Purtroppo c’è uno scollamento molto forte tra un’idea mainstream mediatica delle cose e lo stato concreto delle cose. Basta andare a vedere come operano nel tessuto sociale italiano certe realtà di cui per esempio parla meravigliosamente Il fronte interno, questo documentario di Paola Piacenza che ho prodotto. Dove tu entri dentro realtà, per esempio nell’associazionismo volontario, che aiuta la vera povertà – che esiste in Italia ed è diffusissima – a trovare delle soluzioni al disastro quotidiano in cui vivono. Lì dove l’istituzione fallisce. 

Altro lato del tuo prisma: produrre il cinema di altri cineasti.
Il fatto che faccio il cinema degli altri, che produco il cinema di altri? È una cosa che ho sempre amato, sempre ammirato. Mi ricordo perfettamente che Bernardo Bertolucci aveva prodotto un film credo di Luciano Manuzzi che si chiamava Sconcerto rock, 1982. E questa cosa, nel mio culto di Bernardo, mi aveva molto emozionato, mi aveva colpito il fatto che lui producesse da regista un altro regista. Mi dissi: allora un regista non è solo un regista, e da lì nacque la mia passione per la produzione. Un’altra grande lezione, da questo punto di vista, è arrivata con Spielberg. Mi ricordo che produsse uno dei miei film preferiti degli anni ‘80 che è Poltergeist – Demoniache presenze di Tobe Hooper. Ma anche i film di Joe Dante come Gremlins. Insomma, ho sempre pensato che il mestiere che volevo fare e che poi ho cominciato a praticare non fosse completo se non ero in grado di essere anche produttore e produttore di altri, soprattutto perché io ho una passione enorme per i registi. Anche nella mia vita privata. Come con la cinepresa, trovo molto erotica la figura del regista. 

Ti sei erotizzato guardandoti sulla copertina di Sight and Sound (forse la più autorevole e diffusa rivista di cinema esistente ndr)? 
La copertina sul futuro del film? No. Non mi sono per niente erotizzato.

Non sei uscito da te e hai visto un cineasta di importanza planetaria che si chiamava Luca Guadagnino in quella foto in bianco e nero? Ricordiamo che gli altri erano Chloe Zhao, Sofia Coppola e Steve McQueen. 
Grazie al cielo non ho questo tipo di psicosi, no. 

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