Questo è un nuovo numero di Cose da maschi, la newsletter di Domani dedicata a nuovi e antichi paradigmi di genere. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter, in arrivo ogni due mercoledì alle 18.00, clicca qui
Ho passato le ultime due settimane a sistemare il manoscritto del libro cui, l’anno venturo, affiderò i virili ragionamenti di queste ormai quaranta lettere sulle cose da maschi. Si intitolerà, con estro che forse non vi aspetterete, Cose da maschi (sorpresa!). Lo stamperà Einaudi, casa editrice che forse più di tutte ha informato l’immagine del maschio letterato dell’Italia moderna e contemporanea – anche, magari soprattutto, attraverso un amichevole contrasto con le sue grandi autrici di ogni tempo – e uscirà, mi dicono, l’otto marzo prossimo.
Tale lavoro disperato di febbrile selezione, scrittura, riscrittura, struttura e forma, mi ha distratto dal discorso che domina, di là dalle gravi notizie legislative e geopolitiche, questa metà di novembre – nel paese dove vivo dedicata all’imminente rituale del ringraziamento, così antropologicamente incantevole e storicamente ipocrita. E così domenica scorsa, una volta consegnate all’editor le mie duecento cartelle tormentate da correzioni, ho trasecolato accendendo la televisione e trovandomi scagliato nel rutilante circo mal commentato della cerimonia d’apertura dei mondiali in Qatar.
Possibile, mi sono chiesto, che uno tenga per un anno una rubrica intitolata Cose da maschi, da cui sta per trarre un libro intitolato Cose da maschi, e non abbia mai scritto una riga sul calcio? Quale cosa è più da maschi, per un italiano della mia generazione, del calcio? Il fatto è che del calcio, sin dalla più tenera infanzia, non me n’è mai fregata una mazza. Lo guardo raramente, sono sempre stato famoso per la mia incapacità a giocarci (a differenza di non più atletici o più marziali compagni di giochi e di classe), mi sono recato allo stadio, per quello sport, una volta sola nella vita – a Filadelfia, quando mi hanno invitato a un’amichevole della nazionale americana di ritorno da uno storico trionfo, ed era la nazionale, s’intende, femminile.
Devo dire che sì, ormai l’ho un po’ adottato come accessorio della mia italianità qui negli Stati Uniti: andavo a tifare la Roma in un bar di New York da dottorando in visita assieme ad altri compatrioti, e all’affetto per la Roma inizio spesso i miei studenti e le mie studentesse fingendo di tenerci moltissimo. Sfoggio inoltre una (in realtà tragicamente superficiale) cultura calcistica con colleghi e conoscenti che non ne sanno nulla. Mi fa anche simpatia vedere come il gioco faccia qui incontrare immigrati europei e latini su campetti in realtà destinati ad altri sport, e mi interessa come tra i locali sia soprattutto uno sport femminile – e addirittura queer, come mostrano i tiktoker da poco usciti dal liceo. Ma il tirocinio alla maschilità classico del calcio, da italiano in Italia, l’ho saltato a piè pari. Perché?
Cerco di rispondere a una simile domanda esistenziale qui su Domani online, e sabato troverete la risposta stampata sull’edizione cartacea, come al solito. Per una volta non faccio ricorso a miti greci o poeti rinascimentali, quadri più o meno famosi e brani d’immaginario fumettistico, cinematografico o televisivo – fatto salvo un riferimento al Sanremo forse più disastroso di sempre, cui mi fanno pensare i correnti mondiali politicamente irricevibili, su cui nell’articolo lancio qualche, pur insufficiente, strale.
In queste righe che vi offro per il nostro bisettimanale incontro cerco davvero di interrogare la mia esperienza di non-calciatore, di ateo del pallone, e mi domando se, tra voialtri che leggete, ci sia qualcuno che ha attraversato una simile esperienza per analoghi motivi.
Confesso che la questione non è davvero sportiva, né di eleganza o snobismo, come mi è sempre piaciuto pensare. Il problema col calcio, per me, è stata, sospetto, la sua radicale natura di gioco di squadra prettamente legato a un genere (il mio), cioè proprio l’aspetto che lo rende un ineludibile terreno d’indagine per capire la maschilità relazionale che, dalla fine dell’ultima estate, questa newsletter investiga: il paradigma della bromance.
Rimango fiero di non aver mai partecipato con la stessa forsennata ossessione dei miei pari ai rituali del tifo. Non mi pento di aver preferito, nei miei dialoghi con gli altri, la postura testa-a-testa della curiosità a quella, tipica dello spettatore sportivo, che orienta lo sguardo di tutti sullo stadio o sullo schermo. Rimanere un alieno, uno straniero nella curva, nella sala Snai, non mi dispiace.
Mi dispiace però invece aver tanto sistematicamente rifiutato lo spirito di squadra che il calcio educa a coltivare, nella sua peculiare inclusività e forza centripeta di gioco di contatto senza lotte, senza mani, e senza protesi varie (bastoni, mazze, racchette, armature). Non appartenere a un ulteriore corpo di corpi in relazione, non esultare in gruppo, rifiutare di indossare le adeguate scarpe e altri convenienti indumenti quando ci si ritrova in gioco è una forma di estraneità al calcio che mi ha reso meno capace di condividermi, di parlare con fluidità la lingua franca dei miei simili. Mi ha fatto scomodo com’è scomodo lo scintillante calciatore composto dai ritagli di Didier Falzone, come sempre immaginifico interprete finissimo dei temi di questa rubrica.
Sospetto che anche lui, come me, sia stato un appassionato di Holly e Benji incapace di trovare nel calcio vero le occasioni un po’ ninja di solitaria epica che solo un cartone straniero poteva incollare sul calcio, che intender non lo può chi non lo prova. E voi?
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