Se hai dubbi sul fatto che la filosofia sia stupore o dialettica, meraviglia per l’essere, o scambio, anche duro, di pensiero Maurizio Ferraris te li toglie. Formatosi col post strutturalismo francese (Derrida, Lyotard, Foucault, Deleuze) e con l’ermeneutica (è stato allievo di Hans Georg Gadamer), dalla fine degli anni Ottanta ha buttato via l’abito curiale post-moderno ed è stato tra i fondatori del “nuovo realismo”: la filosofia non è deriva di interpretazioni, ma deve far riferimento all’irriducibilità del mondo.

Ferraris, che insegna da anni filosofia teoretica a Torino, dove dirige il LabOnt, centro di ontologia, ha poi “demolito” la Critica della ragion pura di Immanuel Kant, con un libro stimolante, e ha offerto un approccio personale alla cultura digitale con il suo ultimo Documanità. Filosofia del mondo nuovo (Laterza, 2021).

Lo si è incontrato al Festival della filosofia di Modena (edizione frizzante dopo lo stop pandemico) ed è stata l’occasione per uno scambio decisamente oppositivo.

Per chi scrive, ad esempio, la cosiddetta cancel culture ha risvolti imbarazzanti: una delle ultime a riguardo è che in Canada hanno bruciato albi di Asterix, perché inciterebbero all’odio razziale.

Per Ferraris: «Da una parte questi fenomeni sono un segno di progresso, perché i tabù si spostano dalla sfera degli obblighi alimentari o di altro tipo (il pesce il venerdì, e magari l’autoflagellazione e il cilicio) a tabù di tipo più generalmente umano, legati al rispetto reciproco. Che “invertito” o “negro” siano oggi parole impronunciabili in pubblico mi sembra un grande passo in avanti dell’umanità. Ciò non mi impedisce di trovare, ovviamente, ridicolo il rogo di Asterix. Ma l’orbace lo era di più».

E come la mettiamo, allora, con quello che regolarmente passa il settimanale francese Charlie Hebdo, che riesce a fare incazzare tutti, dagli inglesi a noialtri italiani? L’immancabile shitstorm che fa pensare a una sorta di controllo impersonale via social, ancora più potente della censura dei decenni e secoli passati.

«Mi chiedo come sia possibile coltivare una idea del genere», risponde Ferraris. «Un conto è la shitstorm, un altro è la censura. Immaginiamo che la satira che facciamo in Italia la si facesse in Russia con Putin o in Cina con Xi Jinping. Non sarei affatto tranquillo per l’avvenire del satiro russo o cinese. E ricordiamoci di quando Tognazzi e Vianello furono cacciati dalla Rai per una innocentissima battuta sul presidente Gronchi. L’idea che si vada sempre verso il peggio è una pericolosissima illusione ottica. Se non ci crediamo, proviamo a fare un viaggio nel tempo e a lanciare due battute salaci ad Attila».

Bene, ma passato il tempo dell’orbace e anche di Attila, resta l’impressione di un focalizzarsi esclusivo e ossessivo sul linguaggio. Come se la cosiddetta “svolta linguistica” della filosofia degli anni Cinquanta e Sessanta si fosse trasformata in una fede nel fatto che basti cambiare le parole per cambiare le cose. Pensiero magico di ritorno? Controllo linguistico?

«Non sono d’accordo», si oppone Ferraris. «Anche qui, temo che soffriamo di una forma di ipermetropia che enfatizza il presente e dimentica il passato. L’idea di ribattezzare il bar “quisibeve”, di trasformare l’Hotel Majestic in “Maestoso”, di imporre il saluto romano, è ben più pazzesca del conio di “operatore ecologico” o di “diversamente abile”, che oltretutto è guidata dal rispetto umano e non da smanie nazionalistiche. E cosa dire delle smanie che inducevano i ceti medi dei tempi passati a dire “la mia signora” invece che “mia moglie”? Il che, tra l’altro, dimostra che la mania del politicamente corretto, che solitamente si imputa alla sinistra, è universalmente umana e riguarda ogni ceto e ogni tempo». 

Certo è che, spesso, sui social, il linguaggio venga usato in modo definitorio. Come se non esistessero usi “impropri”, quanto perfettamente legittimi, della lingua. Ironia, umorismo, iperboli. Cosa ne pensa?

«Ha mai sentito una telecronaca calcistica? Una conversazione tra adolescenti? Ha mai letto le tonnellate di meme (alcuni molto divertenti) che ci raggiungono ogni giorno sul web?»

Sì, ma quasi sempre i meme sono ironici senza essere davvero corrosivi. Ma senta un po’, secondo lei, in definitiva la cancel culture è un impoverimento del linguaggio?

«No, non impoverisce, perché i termini si raddoppiano: l’impronunciabile rimane, ed è pronunciato in ambito ristretto e col gusto della trasgressione, e i pronunciabili si moltiplicano, e sono pronunciati in contesti diversi, formali, ufficiali, meno formali ecc. Non a caso i dizionari diventano sempre più spessi».
E a proposito di giochi di linguaggio e ontologia: la stagione del postmoderno, sulla quale Ferraris è stato anche duro e critico, sembra tramontata.

«È stata una stagione di grande emancipazione», commenta Ferraris, «visto che l’umanità fa progressi e il postmoderno ci ha liberati di tante rigidità. Ma, appunto perché l’umanità fa progressi, non mi sento di rimpiangerla».

Uhm, il progresso. I progressi. Dopo l’11 settembre, la crisi del 2008, la pandemia, ci siamo mossi verso una stagione di maggiore consapevolezza o no?

«Almeno in linea di principio sì. Ma se consideriamo che non molto tempo fa l’attuale ministro degli Esteri urlò da un balcone che la povertà era stata abolita non sono sicuro che l’umanità supererà mai il fascino della magia, e della speranza che cambiando le parole cambino le cose». 

Ci sarebbe la sensazione che con il ritorno della Storia, e con il cambiare (non in meglio) delle condizioni economiche, siamo entrati in una sorta di fase ipermoderna di stasi, o di nostalgia. Lo vediamo a destra, con i vari nazionalismi, securitarismi, ecc. E a sinistra, con la riproposizione di filosofie “emancipative” centrate però più che sul discorso politico economico, sulla questione dei diritti. Come la vede?

«È sicuro che l’umanità vada verso il peggio?», nota Ferraris. «Dal 2012 a oggi il numero dei cinesi che si trovano sotto la soglia di povertà è passato da 112 milioni a 15, il che, per una popolazione di 1 miliardo e 400 milioni di persone che erano tradizionalmente il simbolo della miseria, mi sembra un enorme risultato. Ai tempi della Spagnola eravamo in gran parte analfabeti, adesso abbiamo scritto milioni di libri sul lockdown, e moltissimi ne abbiamo letti (crescita vertiginosa del 20 per cento per gli editori). Cent’anni fa era considerato nobile e doveroso mandare dei ventenni a morire al fronte, adesso ci preoccupiamo della salute degli ottantenni. E i diritti sono una gran cosa, almeno dai tempi della Capanna dello zio Tom. Se poi consideriamo che la Cina ha ottenuto quello che ha ottenuto grazie allo sfruttamento del valore delle piattaforme, e che anche noi possiamo farlo, oltretutto con piattaforme private e dunque non interessate alle nostre opinioni, mi pare che ci siano molte cose in cui sperare, basta lavorarci».

Molto spesso questa ricerca del futuro, passa dall’affidare tutto alle verità scientifiche. Come se la scienza fosse vista come nuova metafisica o religione. È d’accordo? Mi bastoni pure, se ritiene.

«Poniamo che mi bastonasse lei, chiederei consiglio a un fisico? Ovvio che no. Se sto male vado dal medico, se ho un problema legale vado dall’avvocato, se voglio leggere un buon libro mi faccio consigliare da un letterato. Tutto qui. La scienza è la migliore approssimazione alla verità nei suoi ambiti specifici, ma la realtà è enormemente più vasta degli ambiti trattati dalla scienza».

Non le pare che l’ipermoderno, alla fine, abbia qualche caratteristica, anche dal punto di vista simbolico e linguistico, di un periodo di Restaurazione? 

«La restaurazione era il ritorno del potere sovrano come manifestazione del diritto divino. Ed escluderei che gli amministratori delegati delle grandi aziende capitalistiche abbiano tempo e voglia di esercitare azioni nel simbolico e nel linguistico. Insomma, scusi l’irriverenza, ma di che cosa stiamo parlando?»

Staremmo parlando del fatto che i colossi del digitale, che sono, appunto, grandi aziende capitalistiche, lavorano non solo sui dati che derivano dai nostri comportamenti, ma implementano algoritmi basati sulle parole, diffondono formati grafico-simbolici. E sono anche promotori di icone e costruttori di medium. Non sono solo dei raccoglitori (e mobilitatori) “neutri”, ma mettono in circolo contenuti, simboli, valori, giudizi. Non sono solo un elemento tecnico, ma impongono delle policy, quindi delle finalità umane. Sulle quali è legittimo coltivare dubbi non apocalittici.

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