Per tre anni, quando mi sono trasferito negli Stati Uniti, ho insegnato corsi universitari in prigione. In un carcere giovanile, ad essere precisi: una cosiddetta «struttura di correzione» a Bordentown, nel New Jersey centrale, assurdamente privata come l’università in cui lavoravo. Pubblico era invece il college lì vicino, deputato a certificare i crediti che noialtri insegnanti, tutti volontari, assegnavamo agli studenti incarcerati promossi, cosicché potessero avanzare verso una laurea che alcuni prendevano ancora da lì dentro, in attesa di uscire con un titolo in mano. A differenza del college però, aperto a tuttə sin dalla fondazione – e dell’università che, nel (non tanto remoto) 1969, dischiuse le sue inespugnabili porte elitiste anche alle donne (tipo Michelle Obama e Jodi Picoult, laureatesi lì negli anni Ottanta) – in prigione si trovavano, ovviamente, classi di soli maschi. Diverse età e provenienze, diverse etnie (anche se, per ragioni di razzismo sistemico, la maggioranza era di Meri e Latini) ma un genere solo. Come un tempo al fronte (o a Princeton, appunto), come in certi campi di concentramento.

Facciamo che

Dopo un anno d’introduzione all’analisi letteraria – il primo corso che abbia insegnato interamente in inglese nella mia vita – mi prese il desiderio di stabilire un modulo di italiano. Una lingua straniera figurava infatti tra i requisiti per la laurea, ma l’unica offerta era quella spagnola. Molti studenti la parlavano in realtà già sin dalla prima infanzia e si sentivano mortificati a fingere d’impararla, ma non avevano alternative. Con Chiara Benetollo, un’eroica comparatista allora dottoranda (che oggi dirige quel programma di “prison teaching” e, ironicamente, insegna in un’università per sole donne), producemmo dunque un curriculum, e avviammo un corso annuale di lingua italiana che forse rimane il migliore che abbia mai disegnato e condotto.

Senza video e immagini da proiettare del resto, senza tutti gli ausili che lo spazio del carcere tiene per legge fuori dalle sbarre, il contenuto culturale attraverso cui veicolare la lingua non poteva che provenire da me e da Chiara, lì per lì, armati di gesso e di fotocopie su cui si poteva scrivere solo con matite morbide, approvate dalle guardie. Si trattava dunque, per lo più, di far succedere in classe quello che di solito si può comodamente mostrare aprendo YouTube o scaricando una clip dal sito della Rai: una sequela di scenette, situazioni immaginarie, giochi di ruolo animati dalla lingua – o meglio, capaci di animarla.

Dopo qualche mese, impratichiti e straordinariamente fantasiosi, gli studenti cominciarono a richiederle espressamente attraverso una formula standard: «Facciamo che» + imperfetto – facciamo che eravamo a Napoli e ordinavamo tutti la pizza, facciamo che io ero Goku e tu Vegeta (Dragon Ball, con mia sorpresa, ci univa in un immaginario franco di raccordo), facciamo che Alessandro vendeva i gioielli italiani e noi li compravamo (nasce lì il mio interesse per la gioielleria da maschi), eccetera. Io scrivevo parole utili alla lavagna e loro, cercando di indovinarne il senso, le usavano per inscenare la situazione escogitata. Il momento pedagogico più alto si raggiunse al secondo semestre, quando qualcuno propose «facciamo che eravamo a Roma, e incontravamo la bella ragazza». Un lampo di genio mi spinse a offrirgli, come lemma nuovo da adoperare, «Fata».

Il fato della fata

Nulla appare più magico e rivelatorio, a chi impara una lingua diversa ma non troppo distante dalla propria, dell’insorgere improvviso di quelli che in inglese si chiamano “falsi amici”, parole che sembrano altre parole (come annoyed, che non significa “annoiato”, o cold, che vuol dire “freddo” pur suonando invece come “caldo”) o che hanno, a seconda dell’idioma, doppi significati.

“Fata”, me ne resi conto una frazione di secondo dopo averlo scritta alla lavagna, doveva essere per i miei studenti tra queste ultime, giacché il suo equivalente inglese, fairy, è un modo un po’ desueto per insultare ragazzi effeminati e uomini che amano altri uomini: non proprio il termine che salta in mente per apostrofare una bella ragazza a Roma. E tuttavia, a salvarmi dall’imbarazzo, fu l’altro tipo di “falsa amicizia” che la stessa parola instaura con lemmi inglesi di comune origine latina: agli studenti “fata” faceva pensare al “fato”, a una donna “fatale”.

D’altronde, anni dopo, Netflix ha potuto intitolare la sua serie inglese basata sulle fatine italiane Winx di Iginio Straffi “Fate” appunto, giocando tra il termine anglofono per “destino” e quello nostrano per fairies, entrambi radicanti nella parola che gli antichi romani usavano per “vaticinio”, “predizione”, “sentenza oracolare”, a sua volta risalente al verbo che gli osci dell’Italia meridionale probabilmente adoperavano per dire “parlare”, cioè fation, forse imparentato con la stessa radice sanscrita che dà la parola “famiglia”. Tutta questa roba però, in un corso di italiano per principianti, non la potevo spiegare. E dunque, dopo aver lasciato i miei studenti usare “fata” alla romanesca per un quarto d’ora, disegnai per loro una fairy, raccontandogli di come certe parole possono trasmutare da insulti da maschio a complimenti da femmina in base alla lingua in cui le si traduce.

Ecco la fava!

In quel secondo semestre il gruppo di insegnanti si era allargato, includendo una lettrice di Princeton, Sara Teardo, e una dottoranda di Rutgers University, Donata Panizzi. Rimanevo dunque l’unico maschio, e arrossii non poco quando un nostro studente disse a una delle mie colleghe, facendola scoppiare a ridere, qualcosa tipo «quando vedo una bella ragazza a Roma io le dico “ecco la fava!”».

Essendo l’unico romano, oltre che l’unico maschio, temo di essere risultato poco credibile quando ho cercato di spiegare, nel nostro class log condiviso su Google drive, che doveva trattarsi di un errore di pronuncia, che la parola era “fata”, che la mia lezione era stata addirittura una roba di gender bending. Eccomi a fare la figura del cafone che fa cameratismo in classe – facciamo che eravamo venti maschi a snocciolare eufemismi sessuali in italiano, facciamo che Alessandro era un banale misogino di Roma sud.

La settimana seguente, nell’impacciato tentativo di rimediare (la regola del corso, come di tutti i moduli universitari di lingua che si rispettino, era di non spiegare mai nulla in inglese), devo aver confuso ancora di più le idee dei poveri studenti sbigottiti. I quali, dell’incidente “fava”, evidentemente non avevano memoria, ma nutrivano ora un’improvvisa curiosità per quell’ulteriore parola nuova che, come mi sforzavo di chiarire, era quasi “fata” ma aveva invece a che fare con un certo tipo di fagioli e, fatalmente, con una cosa da maschi che non mi pareva il caso di disegnare alla lavagna.

Mi venne incontro Jhonny, uno studente di madrelingua spagnola che dunque intuiva più degli altri e, sorridendo saputo, schioccò le dita per arguire che, forse, intendevo dire “il favo”, giacché di virilità evidentemente si stava parlando e la questione dell’accordo in – o delle parole al maschile, era stata la grande protagonista di tutto il semestre precedente. Risi sollevato quando Jhonny pronunciò la parola inglese per “cazzo” facendo sbottare tutti divertiti e un po’ smarriti – facciamo che eravamo venti maschi a parlare di fava in classe, facciamo che vi insegnavo le parolacce invece delle etimologie.

La fava non è il favo

La fava però, illustrerei a Jhonny se mai potessi incontrarlo di nuovo, non è il favo. Si tratta di parole addirittura avversarie, cui è ignota l’amicizia (non poi così falsa) che lega invece insieme il fato etimologico delle fate, del fate e delle fairies, maschi o femmine che siano. Dicesi “fava” un baccello che si mangia, dalla radice di parole appunto mangerecce come “fagocitare” – un mangiatore di fave, suppongo, si dice perciò “fagofago”. “Favo” designa altresì la casa delle api, forse a causa della radice sanscrita per “abitazione”, che dà anche “fabbricare”.

A differenza di fata e fato, esiti distinti di una medesima origine linguistica, la fava e il favo provengono da ceppi separati, che raggiungono ugualmente disuniti la lingua madre dei miei studenti: fava, in inglese, si dice proprio fava bean, e sebbene favo si dica oggi honeycomb a lungo lo si è detto favus – parola che correntemente si usa invece in medicina per una forma di tigna che fa somigliare la pelle, appunto, a un favo.

Ma che discorso della fava. Facciamo allora che la lingua la usavamo invece di spiegarla: facciamo che i suoi cortocircuiti irrisolvibili, i suoi misteri, ci servivano a scoppiare a ridere mentre provavamo a trasformare uno stanzone di Bordentown in un favo.

© Riproduzione riservata