Se volessimo, potremmo leggere il Pasticciaccio come un Baedeker, o un rosso libro del Touring, dedicato alla Roma degli anni Trenta. E passeggiare con le sue pagine aperte in due quartieri di Roma: quello che dal Pantheon conduce a piazza della Minerva, a via Santa Chiara, a piazza del Collegio Romano e al Corso, tra le piccole strade del centro; e l’altro, più vasto, che da piazza Vittorio, Santa Maria Maggiore, via Merulana porta sino al Celio e al Laterano dove, in quegli anni, giungevano ancora il profumo e le voci della campagna.

Con occhi aperti e avidi, viviamo nel presente. Ma il presente, a Gadda, non basta. Egli ha bisogno di storia: solo lei gli dà sicurezza, spessore, quiete; soltanto in lei egli può intravedere una specie di legge, che manca al presente. Così egli perfora l’oggi: risale all’indietro, sempre più indietro, come certi pesci che risalgono contro corrente «all’insù, su, su, su, sino a ribevere le linfe natali, sino alle montane sorgive dello Jukon, o dell’Adda, o del Rio Negro andino». Da storico si trasforma in geologo: ritrova nel tempo storico i cataclismi, le fratture, le cristallizzazioni, le stratificazioni, che formano la lunga vicenda della natura; e si addentra sempre più profondamente negli strati della creazione.

Così il Pasticciaccio diventa il più grandioso epos che, dopo l’Eneide, sia stato consacrato alla storia di Roma.

Abbiamo la Roma papale, con le grandi chiese barocche, «i fastigi d’oro, a vespero, o di rubino». Roma della Repubblica e dei Re, Tullo e Anco Marzio, con le vergini del tempo di Clelia, «l’espressione severa, sicura, due occhi fermi, luminosissimi, quasi due gemme, un naso diritto con il piano della fronte»; e i nomi classici, attribuiti alle figlie di Liliana e ai complici di Zamira – Camilla, Lavinia, Virginia, Enea, Diomede, Ascanio. Poi, risalendo sempre più indietro, sempre più contro corrente, la Roma arcaica, la Roma dei pastori e delle feste lupercali: il Lazio italico e sabino, il «grande ventre fecondo d’Italia», che resta ancora vivo nei Castelli romani, tra Albano e Marino, come se Gadda volesse riscrivere per noi il libro ottavo dell’Eneide.

Quale profumo e densità antica nel paesaggio, tra le vette dei Velini, del Soratte, i gioghi di Sabina, le rocche di cenere, gli spalti d’arenaria, le torri senza nome, rivestite di lacche e di porpora dall’apparizione del sole.

Questo paesaggio arcaico ha il suo luogo sacro: l’antro della Zamira. Con i capelli arruffati, le iridi nerissime, la bocca sdentata, le schifose bollicine agli angoli delle labbra, la Zamira è l’ultima incarnazione della Sibilla Cumana. Il suo antro è il ricettacolo «dove germogliano i vaticini e i responsi», con le pentole di rame e i gufi: attorno a lei aleggia ancora il senso della divinazione, la passione religiosa del mistero, i venerabili Arcana Mundi, che gremiscono il cuore del mondo classico.

Col tempo, la Sibilla si è degradata. I vaticini della Zamira non sono più quelli che la Sibilla consegnava a Enea. Con i suoi «abominevoli sortilegi», è diventata una creatura d’Abisso: una strega come quelle che Gadda ritrovava nei versi di Orazio, Ovidio e Lucano; una strega shakespeariana, seduta davanti al gran calderone vorticante e gorgogliante.

Si è adattata a vivere nell’Italia moderna, sotto il fascismo, dove si abbandona alle attività più pittoresche: rammendatrice, rimagliatrice, calzonara, tintora, merciaia, chiromante, ostessa, esorcista, ostetrica di donne e di cagne, procuratrice d’aborti, ruffiana, tenutaria, ladra, protettrice di ladri... Ma non ha perduto il suo rapporto col numen, e il virgiliano «sacerdozio della tenebra».

Dominato dalla propria passione geologica, Gadda risale ancora più indietro, sempre più indietro, nelle remotissime fondamenta della Natura, ricostruendo, diceva Novalis, «l’arcana costituzione delle sue membra di sasso», e ritrovando gli archetipi dell’universo.

Il motivo più nascosto e continuo del Pasticciaccio è quello dei gioielli: i gioielli della Menegazzi, di Valdarena e della Balducci, che Gadda descrive con gli splendidi e morbidi fiori del suo estetismo, rivaleggiando con Mantegna, Andrea del Castagno e D’Annunzio.

Ecco «il diaspro sanguigno: pietra verdecupa in un tono lucido quasi di foglia... con esigue venuzze d’un cinabro vermiglione come striature de corallo: quasi cagliato sangue, dentro la verde carne del sogno»; o «la pietra sublunare, pietra elegiaca, dalle dolci e soffuse lattescenze come di cielo nordico». Finché, dopo la grottesca iniziazione nell’antro della Zamira, dopo il lungo itinerario farsesco che ci conduce tra i cani maremmani infuriati, i treni di campagna, le vecchie idiote senza mutande, le galline ebefreniche, abbiamo la rivelazione di Casal Bruciato.

Le gemme rubate stanno nascoste in un pitale pieno di noci. La mano del carabiniere rovescia su un letto cencioso le pallette verdi, le medagliette, le spille e corniole, i gingilli d’oro, le catenine, le crocine, le collanine a filigrana, e anelli e coralli: anelli decorati di pietre rare, splendenti d’una gemma, o di gemme di colore distinto…

Siamo giunti al punto più sublime del Pasticciaccio. Non importa che il casello di Casal Bruciato sia un luogo infimo; e che le gemme siano uscite da un pitale, e ora stiano sulla coperta cenciosa sparse come coccinelle impaurite, o ghiandoline di piccione, o caramelle, o ciliege. «Venuto da Ceylon o di Birmania, o dal Siam», il corindone è «nobile d’una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido, o azzurro notte ... del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido A1203 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio». Il nome di Dio è ripetuto tre volte, come per una rivelazione suprema. Lo stile non potrebbe essere più solenne. Qui, davanti alle gemme, conosciamo finalmente l’ignoto, remoto pensiero di Dio: la sua memoria e la sua fatica; come si sono espresse nelle leggi e nelle strutture della Natura.

Non incontreremo mai più, nel Pasticciaccio, la perfezione della Legge di Dio. Appena scoperta e celebrata, la Legge viene dimenticata. È soltanto una luce, o un barlume, che ci ricorda quale sia, nelle profondità, l’ordine arcano della creazione. Ma se, dopo questa lunga esplorazione nelle viscere dell’universo, torniamo alla superficie, ritroviamo soltanto delitti, e menzogne e sciocchezze e volgarità e carte unte e gusci d’uovo ed esibizioni dell’io e lettere mai giunte a destinazione e disordine e ingiustizie e vessazioni, contro i quali torna ad accendersi il furore di Gadda.

Nessuno è più lontano di lui dal costruire la cattedrale della harmoniamundi. Il Pasticciaccio, al quale egli si era dedicato con tanto slancio e una specie di oscura fiducia, non rivela un itinerario mentale, o una legge metafisica, come quella che lega la prima e l’ultima parola della Recherche. Se anche l’avesse concepita (ma non la concepì), non riuscì a portarla alla luce, perché il libro rimase una rovina, ai piedi della quale siamo ancora accampati.

Ingravallo avrebbe scoperto Virginia: il matricidio sarebbe stato punito; ma non per questo la Legge e la memoria di Dio sarebbero tornate a regnare sull’universo. Eppure nel Pasticciaccio c’è una Legge, che salva l’universo dalla rovina: quella sovrana della metafora. Gadda rappresenta due frammenti insignificanti di vita: una gallina guercia; e il canto delle cicale, d’estate, tra i laghi e le colline della Brianza. Attorno a ogni frammento, la sua fantasia analogica richiama tutte le relazioni possibili: le costruzioni dell’architettura, le forme della natura inorganica, gli abissi del mare, gli spazi celesti, il canto di una soprano, il nome di un grande artista, la mitologia dionisiaca.

Così qualsiasi briciola di realtà, anche la più infima, diventa una cellula dell’intera esistenza: ne riproduce la struttura, i significati, le correlazioni. Grazie alle metafore, le cose sono solidali, e il tessuto dell’universo è compatto e strutturato come il profondissimo mondo delle gemme. Le immagini si avvicinano, si accostano, si fondono, vengono costruite e orchestrate, formano dei grandi «sistemi analogici», perfettamente chiusi in sé stessi.

Creano architetture, ora evidenti, ora sotterranee. Come enormi, foltissimi alberi, si distendono in tutti i versi, protendono le loro braccia stravaganti dove non immagineremmo mai di vederli giungere, si coprono di nuove foglie e germogli, vivono nel tempo e vincono il tempo, obbedendo alla legge provvidenziale di un organismo.

da Carlo Emilio Gadda, Un gomitolo di concause (Lettere a Pietro Citati 1957- 1969), Adelphi per gentile concessione dell’editore

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