Nei miei anni più giovani e meno vulnerabili ho sempre avuto una certezza: qualsiasi cosa avessi scritto sarebbe stato imbevuto di modernismo. L’impossibile Bildungsroman della mia sciatta, incoerente formazione di ceto medio – il pregiudizio mischiato con l’illuminismo, le attività degli scout fascisti, il qualunquismo, la maggioranza morale, la visione del mondo classista di fatto – era la prova che la crisi post-belle époque che ci aveva dato opere nuove e provocatorie come Alla ricerca del tempo perduto, Al faro, L’uomo senza qualità e La coscienza di Zeno era ancora il mondo in cui vivevamo. La crisi della visione eurocentrica del mondo non era ancora finita, e a me andava benissimo continuare a passare al setaccio quella terra desolata con la mia scrittura.

La mia tradizione letteraria era completamente europea. Né specificamente italiana né importata e adattata da altri paesi.

I miei vent’anni non troppo ruggenti capitarono a un altro cambio di secolo. La belle époque in via di disfacimento dell’altro ora si rifletteva negli anni Novanta, un’epoca impolitica, da fine della storia, comodosa e cartoonesca. Giovani, maschi e benestanti, i protagonisti di quei libri modernisti europei – viene subito in mente l’Hans Castorp di Thomas Mann, campione perfetto della specie – avevano stabilito un pattern che io, a vent’anni, trovavo ancora rilevante.

Questi uomini erano smidollati viziati con problemi piccoli ma grandi intuizioni sul mondo. Sapevano che non gli si poteva chiedere di diventare adulti e condurre il mondo verso la luce perché la dialettica dell’illuminismo aveva già portato il mondo a guida europea alla sua conclusione logica: la guerra.

Seguirono le dittature.

Poi arrivò il Piano Marshall. Gli Stati Uniti ci tolsero le redini dell’Europa perché avevamo dimostrato di non essere capaci di non spararci sui piedi facendoci la guerra civile tutto il tempo.

La ragione per cui la chiamo guerra civile è semplice. Se un continente è in grado di connettere le sue lingue creando lo stesso tipo di personaggio in tedesco, italiano e francese – Hans Castorp, Piero Cosini, “Marcel”, allora quel che abbiamo fatto con le due guerre l’abbiamo fatto a noi stessi.

Gli americani ci salvarono, ci misero i punti e ci donarono una sorta di upgrade culturale, ci rimisero in moto in meno di dieci anni dai nostri bombardamenti autolesionisti e suicidi.

Fino a quel momento, per noi europei, io non credo che la scelta fosse tra locale e globale, tra sovranista o cosmopolita. Stavamo sviluppando una grande arte in lingue diverse. Non c’era il mio e il tuo.

L’America invece ci portò tanta nuova cultura insieme a quel Piano Marshall che ci serviva come il pane. Quella cultura ci parve naturale, ma pure straniera. Formati nuovi meravigliosamente praticabili. Laddove il modernismo europeo era stato deliberatamente oscuro, il vostro modernismo ci aveva dato F. Scott Fitzgerald e Hemingway, i Chrysler e Chanin Buildings della letteratura.

Ci vollero decenni per farli nostri, ma l’effetto fu enorme.

Per tutto il corso della mia Bildung, ho di fatto ignorato la letteratura americana. Cominciai a leggere sul serio gli autori americano del dopoguerra e postmoderni solo dopo la pubblicazione del mio primo romanzo a ventisei anni. (Mi pare che lessi Underworld di Don DeLillo a vent’anni, e basta). Cominciai a leggere letteratura americana perché l’industria culturale gridava quanto era importante.

I romanzi americani avevano una certa allure e, qualunque formato scegliessero, pure un’efficienza aerodinamica. Affrontavano ogni forma con slancio. La posta in gioco morale delle storie era, nel complesso, estremamente chiara.

L’idea di Grande Romanzo Americano aveva fatto il suo ingresso nella mia vita letteraria. Nel frattempo, stavo pure scoprendo il processo. Editor, agenti, riviste di settore. I generi si mescolavano in modo inestricabile con gli aspetti commerciali. E il nostro vecchio mondo stava imparando in fretta. Volevamo produrre il stesso tipo di meraviglia letteraria che producevate voi. Era nelle forme, era nel modello di business.

Prima che scoprissi tutto ciò, la sola cosa che la letteratura mi avesse mai insegnato era che dovevi trovare la tua strada leggendo e scrivendo di quanto non valevi niente e della tua mancanza di qualità e proprietà (le Eigenshaften di Musil questo vogliono dire, con tutta la loro ambiguità), e dovevi scrivere romanzi che fossero dei grandi fallimenti, perché le forme ingombranti di molti romanzi modernisti avevano voluto evocare l’iceberg che aveva distrutto l’Europa. Dovevi scrivere della fine delle cose. Il Grande Romanzo Americano, invece, aveva lo stesso luccichio del Piano Marshall. Era una cosa rotonda e sana, un trionfo della volontà che veniva da un popolo che non aveva avuto Nietzsche.

Philip Roth era l’epitome contemporanea del successo. I racconti sul New Yorker ci dicevano che si poteva fare arte con i production values di una maestosa macchina di comunicazione. Perfino i postmoderni, e soprattutto quei suoi figli che bazzicavano McSweeney’s, gli Wallace, gli Eggers, i Lethem e gli Whitehead, mostravano anche loro quella scintilla, quella promessa, quando uscivano i loro libri non erano segni di orrore esistenziale ma inni colorati alla creatività. I loro libri erano eventi, i loro esperimenti erano gradevoli, la loro critica alla società era giusta. Avevano una carriera.

L’idea in sé di Grande Romanzo Americano è una forma potentissima che ha avuto vasta influenza su altre letterature nazionali e continentali.

Lo scontro culturale tra romanzo modernista europeo e Grande Romanzo Americano come meta-formato ha avuto un peso nella mia vita. Il G.R.A. critica la società senza distruggerla. Chi l’avrebbe mai detto! Potevi scegliere la strada aspirazionale middle-class di Pastorale americana; potevi scegliere la versione artistoide dell’amato DeLillo; potevi fare le cose in grande e imitare le prodezze di David Foster Wallace: ma dovevi tentare.

Quando ho conosciuto la letteratura americana ho scoperto finalmente di vivere in un mondo dove l’unica via è il successo, e cercare con tutte le forze di avere un po’ di successo è l’unica vera trama della storia.

Credo sia stato a quel punto della mia formazione che ho reinventato la mia origin story e ho deciso che se ero un autore specificamente italiano lo dovevo a Boccaccio.

Ho cominciato a fare davvero caso alle storie del Decameron passati i trent’anni, quando potevo dare peso al fatto che le sue storie avessero tutte a che fare col nulla, con la povertà dei nostri istinti e delle nostre speranze. Boccaccio ha un tocco leggero, saggio e mondano, perdona i nostri peccati e ce li segnala in un colpo solo. Non fa niente di enorme, raccoglie storie triviali su gelosie meschine, denaro, morte e divertimenti, e sembra sapere sempre che siamo persone piccole incapace di far altro che sopravvivere e alternare malinconia ed entusiasmo.

Ritornando a Boccaccio ho riportato tutto a casa. Boccaccio aveva la spiritualità ma scansava la rettitudine e la monumentale posta in gioco morale che trovavo nella situazione di qualunque eroe o antieroe americano. Nelle sue storie trovavo il tipo di essere umano che è più creatura che Atlante.

La letteratura è stata il fatto più importante della mia vita, e la mia identità si è formata grazie a questo viaggio. Sono partito europeo e decadente; sono andato a ovest per trovare l’oro; e finalmente sono tornato in Italia, dove sono riuscito a diventare me stesso: ad andare a rilassarmi nel monastero, con un gruppetto di suore sfacciate che fanno l’amore a turno con un giardiniere sexy che fa finta di essere muto.

Ne è valsa la pena.

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