A un secolo dalla sua nascita, vale la pena ricordare un autore che è stato capace di mettere attorno alla stessa tavola Marilyn Monroe e la guerra del Vietnam, la letteratura con i fumetti, la lotta nella Resistenza con il gusto irriducibile per la fuga: un incrocio magico tra realismo e sogno
«Distinguere il vento che viene dalla laguna, con quello che viene dal mare», questa forse potrebbe essere la sintesi della letteratura di Alberto Ongaro, sussurrata da lui stesso un giorno sulla terrazza della sua casa al Lido di Venezia. Ongaro nato cento anni fa, il 22 agosto del 1925 è stato – come capitava agli scrittori di quel secondo Novecento che ha visto anche in Italia un affollamento di qualità e di misura fuori dal comune – un avventuriero, un viaggiatore e quindi uno scrittore.
La sua scrittura è fatta di un impasto magico di realtà e avventura, un incrocio continuo fuori e dentro se stesso, ovvero fuori e dentro Venezia che da sempre è un’idea di letteratura e d’identità prima ancora che di città. Cresciuto tra le calli della Serenissima, Ongaro fu tra gli elementi di spicco della Resistenza veneziana insieme all’amico fraterno Franco Basaglia che diverrà poi compagno della sorella, Franca Ongaro tra le principali protagoniste della rivoluzione psichiatrica.
Gli inizi
Incarcerato per un mese nel 1943, dopo la liberazione sua e dell’Italia dal nazifascismo non smetterà di viaggiare per tutta la vita: prima di tutto in Argentina a cui dedicherà uno dei suoi ultimi romanzi, Interno argentino del 1991. Al romanzo in realtà Ongaro arriverà relativamente tardi, la giovinezza sarà infatti spesa al fianco di Hugo Pratt di cui diverrà complice e narratore, amico di scorribande e coautore di alcuni tra i più importanti fumetti del Novecento. Il loro esordio è con Asso di picche nel 1945, una serie a fumetti scritta insieme a Mario Faustinelli che vedrà le stampe fino al 1949, poi tra gli altri verrà L’Ombra nel 1964 pubblicata sul Corriere dei piccoli di cui nel frattempo Ongaro è diventato collaboratore.
Il giornalismo è infatti l’altra faccia di un autore che non vede mai discontinuità nella sua scrittura, che sia letteratura o giornalismo la qualità è sempre la medesima, un discorso oggi raro da incontrare anche per l’assenza organica di quello che fu quel tipo di mondo editoriale e giornalistico.
Ongaro visse in sud America e in Inghilterra, fu corrispondete per l’Europeo diretto da Tommaso Giglio, altra figura apicale di quel mondo, collaboratore di Vittorini al Politecnico, poeta e saggista e quindi giornalista prima con l’Unità e poi dopo il 1956 e i fatti d’Ungheria giornalista all’Ansa e poi a Epoca di Enzo Biagi. L’Europeo fu infatti una vera scuola per corrispondenti e per quella scrittura totale capace di fare letteratura della realtà senza mai falsificarla, ma anzi restituendone le inevitabili sfumature e contraddizioni. Insieme ad Alberto Ongaro comparivano tra gli altri le firme di Oriana Fallaci, Giorgio Bocca e Vittorio Zincone.
Un impasto complesso e ironico
Tuttavia mai nulla è prevalente e tanto meno prioritario nella sua scrittura, i romanzi dialogano con i fumetti e così la collaborazione con il Corriere dei Piccoli con i reportage giornalistici per L’Europeo. Quello dell’autore veneziano è un impasto complesso che restituisce sempre quella delicatezza fatta di qualità e cura che definisce al meglio una scrittura sottile e precisa, figlia di un linguaggio a tratti austero per non dire severo, ma capace subito, all’improvviso, di esplodere in un’imprevedibile ironia.
Il gusto per il comico è in Alberto Ongaro la cifra più nascosta e al tempo stesso più sostanziale di una scrittura che sta tutto all’interno dell’incanto per il mondo. Quel mondo che per lui è la sua stessa avventura. Stare nel mondo vuol dire metterlo alla prova divenendo strumento di verità, e in questo il romanziere s’intreccia al giornalista restituendo una compattezza che non è solo poetica, ma è anche profondamente etica. Il successo arriverà per Alberto Ongaro nel 1980 con La taverna del Doge Loredan e poi la consacrazione con la vittoria del Super Campiello nel 1986 con La partita da cui verrà tratto un film non particolarmente memorabile di Carlo Vanzina se non per la partecipazione di Jennifer Beals e di Faye Dunaway, ultimo rigurgito di un cinema italiano in disarmo che provava ancora a ritagliarsi un profilo e uno spazio internazionale.
Ritorno in laguna
E proprio gli anni Ottanta così privi di ogni sostanza politica e culturale, ma solo di un decadente edonismo, indurranno Alberto Ongaro a tramutare Venezia da luogo di partenza e avvio di ogni possibile avventura a porto d’arrivo, scegliendo però non la città, ormai ridotta a una «banconota falsa», ma i Lido come suo ultimo riparo. Un isolamento dall’attuale presente, ma non dalla realtà e da quel sogno che fu per lui sempre bambinesco e adulto insieme.
Prenderà qui corpo il romanzo – estremamente sottovalutato – La strategia del caso del 2003. Il romanzo vive tutto all’interno del rapporto teso tra un giovane e un vecchio in cui i ruoli si scambiano e non di rado entrano in contraddizione rivelando la maturità per quanto ingenua del giovane e l’angoscia a tratti assurda dell’anziano professor Tomaso Utimpergher. La strategia del caso dialoga fortemente e direttamente con Il complice, l’esordio di Ongaro e lo fa capovolgendone i termini in campo. Tra i due romanzi passano quasi quarant’anni di vita, di viaggi e di scrittura, eppure entrambi offrono un ritratto, probabilmente inconsapevole, ma certamente lucidissimo, dell’artista da giovane e poi da vecchio, in cui però giovane e vecchio non sono che ruoli di una ludica e misteriosa messa in scena. Icastica testimonianza di una fiducia per la letteratura che mai abbandonò Ongaro, fino all’ultimo giocoso noir, Il respiro della laguna, un crime tutto dedicato a Venezia vista da lontano con gli occhi della memoria e con un gusto inesauribile per il sogno di cui l’avventura è il solo punto di partenza.
Gioco e avventura danzano in lui sempre insieme come mostra il bellissimo documentario La Terra del Fuoco del 2019, un prezioso lavoro di montaggio per la regia di Esmeralda Calabria e Silvia Jop che prende avvio da una bobina 16mm del 1954 che testimonia del viaggio di Alberto Ongaro e dell’illustratore Ivo Pavone verso la Terra del Fuoco alla ricerca dei cercatori d’oro. I due che incontreranno lungo la loro strada anche Bruce Chatwin rivelano un gusto per la comicità in sequenze che sembrano vere e proprie slapstick.
E in fondo Alberto Ongaro fu proprio questa possibilità assurda, un incrocio magico tra Robert Mitchum e Buster Keaton, tra realismo e sogno. Uno scrittore veneziano, un amico di Franco Basaglia e Hugo Pratt, ma anche e forse un personaggio di Julio Cortázar o di Roberto Bolaño. Come altri scrittori del suo tempo – Goffredo Parise su tutti – Alberto Ongaro fu infatti capace di mettere attorno alla stessa tavola Marilyn Monroe e la guerra del Vietnam, la letteratura con i fumetti, la lotta nella Resistenza con il gusto irriducibile per la fuga, perché la sua fu una passione irriducibile a dare significato allo spazio bianco che sta tra le righe di ogni pagina scritta.
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