Sulle confezioni delle Barbie la dicitura è d’obbligo: rischio di asfissia. Vale per tutti i giocattoli con piccoli elementi staccabili, e di norma è in inglese: risk of asphyxiation. L’avvertenza andrebbe estesa al film che da oggi, 20 luglio, invade gli schermi di mezzo pianeta, il Barbie di Greta Gerwig, o meglio di Margot Robbie, che ha promosso l’impresa e imposto GG come sceneggiatrice e regista.

Puoi restare asfissiato dall’implacabile tonalità rosa del film, letterale e metaforica: vorrebbe emulare The Truman Show ma al sodo è La Rivincita delle Bionde, versione lusso. E puoi restare asfissiato da un femminismo salottiero e gluten free, buono anche per i palati allergici alla tematica. In sintesi è l’autoritratto da artista di Gerwig, che con il suo mentore e compagno Noah Baumbach divide il fardello dell’intellighentsia newyorchese programmaticamente cool. GG è una imperialista dell’adattamento cinematografico.

Con il suo Piccole donne ha espropriato ogni lettrice/lettore del “dopo” di un diritto inalienabile: quello di dire, stile Flaubert, Jo c’est moi. Jo è lei, Greta Gerwig, pratica chiusa. Adesso ha in cantiere una Biancaneve depurata del Principe, simbolo patriarcale, e di quel bacio “non consensuale”. Viva il revisionismo trendy. In mezzo, ecco la consacrazione della fashion doll di casa Mattel, la prima bambola da fantasie adulte, commercializzata dal 9 marzo 1959 e quindi in affari da 64 anni.

Il sodalizio produttivo Mattel + Warner Bros. (100 milioni di dollari il budget di partenza) ha alimentato una delle campagne di lancio più martellanti dei tempi recenti: meme generati dai trailer in proliferazione esponenziale e l’hashtag #Barbiecore in pole position su TikTok per mesi e mesi.

Target intergenerazionale, senza distizioni di sesso e opinione: come dice lo slogan promozionale Usa, «Se ami Barbie, questo film è per te. Se odi Barbie, questo film è per te». L’idea è di intercettare anche le frange di femminismo che a questa bambola nata wasp, bionda e di taglia skinny hanno mosso decenni fa una guerra senza quartiere. I am not a Barbie Doll era uno slogan popolarissimo tra i movimenti anni Settanta, per gli stereotipi di genere suggeriti e per gli imperdonabili standard estetici che Barbie codificava.

L’anatomia di partenza del giocattolo era una spudorata istigazione all’anoressia? Il brand Mattel ha rincorso il politically correct introducendo dal 2016 versioni curvy ed esemplari inclusivi. Non si tratta solo di proteggere un prodotto da un miliardo e mezzo di dollari l’anno: Barbie è un fenomeno di sottocultura che per i suoi fabbricanti non ammette tramonto.

Marketing progressista

L’aureola progressista di Gerwig è strategica per un film inzeppato di product placement, chiamato a veicolare merci e griffe associate di tutti i tipi: valigie, candele, frozen yogurt e sandali Birkenstock, oltre al protocollare merchandising Mattel. Anche gli slogan di lancio sono calibrati sulle culture e sensibilità locali. Quello italiano cavalca la corsa femminile al sorpasso: «Lei può essere tutto quello che vuole. Lui è solo Ken». 

Diversamente dal biblico Adamo, Ken (Ryan Gosling, una pillola d’oro nel film) è nato infatti solo nel 1961, da una costola di Barbie. È un boyfriend subalterno, un’appendice in dotazione alla star e un complemento indispensabile per fabbricarsi in casa avventure romantiche asessuate, a misura d’infanzia. Perché è pur vero che Barbie è la prima bambola con le tettine, ma non ha la vagina, come il suo fidanzato non ha il pene. La sceneggiatura gioca ampiamente su questo dettaglio per contrapporre l’universo-giocattolo di Barbie Land al mondo reale.

Ma procediamo con ordine. L’idea più ganza del film viene bruciata con la primissima sequenza. In una grigia preistoria (pre-1959) popolata di bambine-mamme condannate a cullare bambolotti-bebè, l’icona liberatrice, che ha il corpo statuario di Margot Robbie, si materializza come il monolito di 2001: Odissea nello Spazio. È l’avvento della civiltà, come per Stanley Kubrick, e i giochi ruolizzati del passato sono da rottamare.

Il mondo di Barbie Land

Nell’utopia post-femminista (o pre-femminista?) di Barbie Land le femmine sono dotate di soldi, macchina e casa propria, potere e carriera. I Ken (i maschi si chiamano tutti Ken tranne Alan, che la Mattel aveva commercializzato senza guardaroba perché “gli stavano” i completini di Ken) fanno solo contorno e colore. È il paese dei balocchi prodotto e venduto a segmenti da Mattel su scala industriale, con i play set riprodotti in dettaglio, i cani che fanno cacche di plastica, i camper rosa (un must particolarmente costoso), i fondali ostentatamente dipinti e le tinte confetto ipersature.

Viene il sospetto che per il suo Asteroid City, che era in concorso a Cannes ma da noi deve ancora uscire, Wes Anderson abbia sfruttato lo stesso identico set. In questa serie infinita di perfect days tutti uguali il Campidoglio è rigorosamente rosa e sul monte Rushmore si stagliano le effigi di quattro Barbie. Quando si manifestano i primi sintomi di squilibrio, e i piedi di Margot-bambola, modellati sul tacco 12, si raddrizzano senza preavviso, il plot si avvia al galoppo verso una prevedibilità desolante.

Perché è ovvio che la donna-bambola, in fuga nel mondo reale per scovare la causa segreta dei suoi turbamenti, scoprirà che i maschi veri sono molestatori e che per le bambine di oggi la sua immagine stereotipata ha fatto regredire il femminismo di un cinquantennio, quindi è “fascista”.

Come è ovvio che il suo fidanzato, scoprendo la mascolinità imperante nella Century City di Los Angeles, tornerà a casa deciso a imporre i modelli del patriarcato. È il solito sillogismo marca Gerwig, con l’elemento femminile avanguardia delle coscienze e la regressione fatale del maschio nell’oscurantismo.

La Mattel stessa si mette in gioco, accettando la parodia di una struttura fallica di comando, senza donne manager e con il Ceo Will Ferrell rigurgitante falsa coscienza machista. Ma è chiaro che il gioco paga, autoreferenziale com’è: il marchio lascia nella memoria un segno indelebile. Tanto più che un’impiegata della stessa azienda (America Ferrera, lanciata dalla serie tv Ugly Betty) diventerà il grillo parlante delle Barbie, snocciolando il frusto decalogo dell’oppressione femminile: devi essere magra ma fingere di voler solo essere sana, devi aver soldi ma non devi chiederne perché è volgare, non puoi invecchiare, eccetera eccetera. On connait la chanson.

C’è un colpo di stato da debellare, a Barbie Land, e i Ken ex-subalterni si apprestano a cambiare la Costituzione relegando le consorelle a donne-oggetto. Ma tutto finirà in gloria, e senza spargimento di sangue.

Nota di merito

No spoiler: avverto solo che la retorica più strappalacrime è affidata a una figura realmente esistita e scomparsa nel 2002, Ruth Handler, consorte del co-fondatore della Mattel e vera madre della bambola Barbie, che prese il nome dalla sua figlia umana.

Per l’happy ending di rito Gerwig non trova di meglio che riciclare i finali di Pinocchio e del Mago di Oz, con l’Uomo di Latta finalmente dotato di un cuore. È un feel good movie, niente di più, ma con molte pretese e sfavillanti intermezzi musicali. Ryan Gosling, il “superfluo” Ken, è di gran lunga la perla del cast.

I primi effetti collaterali del film sono già nei bilanci. La Robbie-Barbie da 50 dollari con le fattezze dell’attrice, sul mercato da giugno, è già sold out, e la Corvette Pink da 75 dollari va come il pane. È ancora ignota la prezzatura del prevedibile Gosling-Ken.

Quando Drive di Nicolas Winding Refn lo promosse allo status di star e sex symbol incontestato, andò a ruba un manualetto compilato da Joanna Benecke, 100 Reasons  to Love Ryan Gosling. Le ragioni per amare R.G. adesso sono 101. È uno dei pochi meriti di questo film pretenzioso.

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