Profumano ancora di anice stellato, i vicoli intorno a Song Wat road. Bangkok è una foresta di grattacieli, ma nel cuore di Chinatown – che solo gli stranieri chiamano così, per i thailandesi è Yaowarat – erbe e spezie si vendono tuttora da sacchi allineati su strada: cumino e cannella, cardamomo e curcuma, aglio, zenzero e pepe. Il curry e gli odori per la zuppa Tom Yum.

Questa non è la città verticale dove in alto corre lo Sky train, in basso il traffico di auto, moto e tuk tuk, più sotto ancora la metropolitana. Il traffico è soprattutto umano, nei vicoli vicini alla riva sinistra del Chao Phraya: turisti che girano tra botteghe di pietre semipreziose, ragazze che si fotografano davanti a caffè di moda e murales, commercianti che allineano tessuti e ciabattine, sacchetti di pistacchi, tè alla rosa, nidi di rondine. Il caos fervido di Song Wat, zona trendissima e antica.

«Il nonno di mio nonno arrivò qui dall’arcipelago di Kinmen, oggi parte di Taiwan. Tra fine Ottocento e inizio Novecento gli immigrati cinesi finivano tutti a vivere su questo lato del fiume», racconta Chef Pam, “Asia’s Best Female Chef 2024”, che in questi vicoli ha il suo stellato Potong. «Lui aveva solo una barchetta e le sue speranze. In barca viveva, dalla barca vendeva ciò che poteva. Con gli anni le cose andarono meglio, aprì un piccolo commercio di medicinali cinesi. Quando ebbe abbastanza soldi fece costruire questo palazzetto di 5 piani che oggi ospita il mio ristorante».

Era una shophouse, casa e bottega insieme, laboratorio e magazzino. La sua famiglia l’ha occupata per molti decenni e più generazioni. Al secondo piano si producevano i medicinali, «uno stanzone, gli operai sedevano a terra», al quarto ci si ritirava a fumare oppio: oggi c’è l’Opium Bar, pubblico di giovani impeccabili e cool che ordinano cocktail d’ispirazione liquid surreality. Al terzo, l’ufficio della Farmacia Potong. «Vuol dire “normale”, perché quella era una semplice farmacia, per bisogni di tutti i giorni», spiega lei. Così si chiama “semplice” una cosa che semplice non è, anzi è una storia molto articolata.

SPAGHETTI E ANATRA

A 35 anni Pichaya Soontornyanakij è chef famosa in tutta l’Asia, imprenditrice di successo, star televisiva. Col marito Tor Boonpiti forma una power couple che progetta creazioni intorno al gusto. Catering, ristoranti, cinema, «narrazioni tra cibo, arte e cultura» si spiega su www.thexprojectbkk.com .

Tutte più o meno in zona, perché le radici contano, soprattutto se cinesi. «Da thai faccio mia la filosofia “sabai sabai” (“prenditela comoda”, ndr), ma il mio lato cinese mi rende molto determinata. Mi piace la pressione, raggiungere obiettivi, far prosperare la mia impresa». È competitiva, da ragazza a scuola è stata capitano di squadre di basket e calcio, «esperienza che ora mi è utile in cucina: sono assertiva. Aggressiva no, non mi piacciono gli chef che urlano. Basta essere chiari su cosa vuoi».

Parliamo su una terrazza coperta della shophouse affacciata su Vanich Road. Su uno scaffale, decine di libri: On Food and Cooking di Harold McGee; The Escoffier; Principles of Food, Beverage, and Labor Cost Control, di Dittmer e Keefe; Wines of the World.

«Un tempo ho pensato di diventare sommelier, mi piacciono i vini del Vecchio Mondo, corposi e strutturati. I libri di enologia sono di mia madre, ma ne comprava anche tanti di cucina, il cibo era importante a casa. Da piccola la guardavo cucinare, piatti cinesi, thai e occidentali – mio padre è per metà australiano. Mamma preparava hamburger e stufati, gli spaghetti alla bolognese. Ci piace cucinare italiano quando siamo insieme: spaghetti alle vongole, la carbonara come va fatta: formaggio e rossi d’uovo, niente panna». La cucina italiana è molto familiare ai thailandesi, spiega Chef Pam, nel paese i bambini mangiano spesso pasta a casa: «Quando abbiamo voglia di cibo occidentale noi facciamo piatti italiani – non francesi, non spagnoli. Spaghetti al pomodoro, per esempio, con tanto peperoncino».

Era una pasta anche il suo primo piatto, vermicelli saltati, stir-fried noodle. Non aveva nemmeno 10 anni, era la prima volta che cucinava sui fuochi. La sensazione di essere “grande”, il piacere di vedere che qualcuno ti è grato per ciò che hai preparato.

Il piatto che oggi più la rappresenta, a Potong, è ben più complesso: “14-day aged duck”, anatra invecchiata 14 giorni. «Mi ci è voluto tanto tempo per perfezionare la tecnica. Ci vuole un’anatra piccola, in cui il rapporto tra grasso, pelle e carne sia perfetto. La laviamo e sbollentiamo perché la pelle si rassodi. La glassiamo in un misto di salsa di soia e aceto, mariniamo l’interno con sale e spezie. Poi la lasciamo frollare nella vetrina dry ager per almeno 14 giorni, a volte ne servono 20 perché la pelle asciughi perfettamente. Evaporata l’acqua, il sapore della carne si è enfatizzato e puoi farla arrosto: diventa estremamente saporita, e la pelle super croccante. Non ci sono scorciatoie, tutti i passaggi sono indispensabili».

Anche per questo definisce “progressive” la sua cucina: thai e cinese insieme, non tradizionale, abbina sapori familiari a tecniche occidentali – francesi in particolare – nelle preparazioni. Le sarebbe piaciuto studiare in Francia, ma la lingua era una barriera, la scelta cadde sul Culinary Institute of America. «Anche perché ho sempre avuto il mito di Julia Child, siamo nate nello stesso giorno del resto! Julia fu la prima a imporsi in un’industria dominata dagli uomini. MI ha ispirato, ha seguito i suoi sogni».

«Women for women»

Qualche sogno di altre donne prova a sostenerlo lei, con il programma «Women for Women» concepito insieme all’American Women’s Club of Thailand. Grazie a cene per raccolta fondi e donazioni si raccolgono i 100mila baht necessari a sostenere le spese universitarie per una giovane senza mezzi; l’altro progetto ne sostiene un’altra che voglia lavorare a Potong. «Vivere a Bangkok è costoso, offriamo alloggio e lavoro retribuito con me. Piccoli progetti concreti: ogni anno 2 donne possono provare a realizzare i loro sogni».

Diventare chef, forse. Ambasciatrici di una cucina di cui gli stranieri conoscono pochi piatti, spesso addomesticati per il gusto “farang”. «5 ingredienti sono sacri in questo paese, presenti in ogni casa: noce di cocco, salsa di pesce, zucchero di palma, riso, peperoncino. Ma la nostra cucina ha tante sfumature, gli stranieri dovrebbero sperimentare. Invece del Tom Yum assaggiare la Gaeng Om, sempre una zuppa ma con aneto e pesce fermentato; invece del Pad Thai il Lad Na, tagliatelle di riso saltate ricoperte da un ricco sugo di carne di maiale. E il Som Tam è buono, ma provate il Som Tam Palah, dal sapore molto più audace».

La sua bambina, quattro anni e mezzo, è già incuriosita dal suo mondo, gioca col mini-forno. A Pam piacerebbe diventasse chef. Lei, però, a casa non cucina più. «Preferisco stare dall’altra parte del tavolo. Ci pensa mio marito, è bravo Tor, ma non mi vuole in cucina: do troppi consigli. Così ho imparato a rilassarmi e aspettare che sia pronto».

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