Giorno dopo giorno si è atteso il miracolo o almeno la "grande sorpresa” della selezione, il titolo che spariglia le carte. Spiace dire che ogni montagna ha partorito un topolino. Il passaparola su Resurrection di Bi Gan era stratosferico. Tecnica superlativa, ma la suggestione non può rimpiazzare integralmente la narrazione, per noi spettatori ordinari
Brouhaha in francese sta per casino, baraonda. A occhio e croce c’è un gran brouhaha tra gli insider, le talpe, le deep throat del sistema-cinema internazionale, e nei sistemi di segnalazione preventiva dell’opus magnum, meglio se rigorosamente top secret, che cambierà i destini della settima arte, o più modestamente quelli di un Festival.
Giorno dopo giorno, qui a Cannes 2025, si è atteso il miracolo annunciato, o almeno quella che finisce nei titoli come la "grande sorpresa” della selezione, il titolo che spariglia le carte. Spiace dire che ogni montagna ha partorito un topolino. Il giro di boa, l’evidenza creativa che fa unanimità o divide gli osservatori in bellicose fazioni (che è poi il dirty pleasure di ogni competizione, perché l’eco ha poi lunga durata) non è mai arrivato.
Il passaparola su Resurrection di Bi Gan, con i suoi trentacinque anni considerato il vero enfant prodige del nuovo cinema cinese, lo sperimentatore capace di scuotere il vecchio mondo, era stratosferico.
È stato l’ultimo titolo ufficialmente inserito nella grande corsa alla Palma d’oro, perché l’autorizzazione delle autorità cinesi è arrivata in extremis. Bi Gan si è conquistato l’aureola di genio fin dal primo film, Kaili Blues, riflessione onirica sul passato di una nazione e sulla presa eterna che la tradizione esercita sulla vita contemporanea, celebrato per i magistrali piani sequenza.
Bi Gan
Tre anni dopo, nel 2018, il suo Un grande viaggio verso la notte ha costretto gli spettatori del Festival a indossare gli occhialetti 3D. Per Resurrection, un movie monster per sua definizione, sviluppato nel corso di cinque anni, il regista trasloca nella fantascienza prossima del 2068, in cui chi rinuncia a sognare vivrà per sempre, sarà immortale, mentre chi sogna dovrà morire e (forse) brevemente rinascere. È una odissea sensoriale, tra fantascienza e poesia visuale, in cui i confini tra memoria e tecnologia si confondono.
Ma è anche la riflessione su un secolo, smisuratamente ambiziosa, perché scandita dai cinque sensi – vista, udito, tatto, odorato, gusto, di cui ci si priva in sequenza – e perché passa attraverso le successive epoche del cinema. Per Bi Gan «è la storia di questo “mostro” del cinema che erra attraverso le illusioni del secolo».
Va detto che la primissima parte del film, muta, è clamorosa, promette il capolavoro, anche polemico. È una sala da cinema muto, con scenari di cartone, che viene sgomberata con la forza dalla polizia. C’è una donna trasportata in un mondo post-apocalittico alla ricerca del Revoleur – neologismo che sta per ladro di sogni –, un androide Nosferatu che arriva dritto dall’espressionismo tedesco, che può sognare, per penetrare nei suoi sogni segreti.
Il labirinto di fantasmagoriche ( e costosissime) scenografie in cui il personaggio femminile si inoltra, passando dai semi di papavero che ruotano come nei caleidoscopi da una pupilla ingrandita a una sala da oppio, è veramente da togliere il fiato. È come regredire dagli effetti speciali di oggi all’artigianato sublime delle origini, sul filo dell’immaginazione più sfrenata. L’orizzonte artistico di Bi Gan comprende, oltre agli altri talenti sfruttati, anche la poesia.
E il verseggiare criptico fuori campo è suggestivo, pur non favorendo per niente la comprensione. Dice il regista che il "mostro” è un archetipo letterario basico, come il Gobbo di Notre Dame, imprescindibile e commovente. Il mostro, ridotto in cenere, torna a una vita effimera reidratato con l’acqua ma soprattutto con bobine di film che gli ridanno coscienza. E per prima cosa riproduce la comica leggendaria dell’omino che sta annaffiando il prato, e per maligno scherzo finisce annaffiato.
Ora, io so che “quelli bravi” spiegheranno alle nuove generazioni di cinefili che Resurrection è un compendio di storia del cinema virata sull’evoluzione degli stili cinesi, ma per me spettatrice profana la riconoscibilità è limitata all’era dei detective hard boiled di Humphrey Bogart, con le atmosfere de Il Falcone Maltese e i suoi inconfondibili impermeabili, con Casablanca e i suoi fumosi locali. Bi Gan: «Del cinema noir, cosa mi ha toccato, cosa mi ha emozionato? È questa emozione che cerco di cogliere e di trasmettere».
I virtuosismi
Il capitolo riservato al gusto attinge invece al cinema cinese classico, violentandolo con la pisciata di un monaco su una statua di Buddha decapitata, mentre su un camion si caricano i relitti di un tempio disabitato e in sfacelo. Magari è una sottile polemica col regime, ma è subliminale.
L’odorato è la fase del melodramma classico, con virate nel musical, giubbotti di pelle nera e un crooner che sciorina al microfono note romantiche mentre nella discoteca infuria una mischia assassina.
È tutto un trionfo di specchi, organici alla narrazione: specchi che ingannano i cacciatori di uomini, o in cui riflettere le scazzottate virtuali di Taxi Driver, o – soprattutto – in cui entrare, perché è oltre che le immagini prendono vita. È un virtuosismo di regia spericolato, con note horror: la mano trapassata del Boss che riempie fino all’orlo un bicchiere di sangue. Fino alla classica “fuga a due”, senza meta e senza futuro, di tanta Nouvelle Vague.
Un uomo, una donna, una barca, e lei è un vampiro. Lui si fa mordere per amore, e il sole sorge sul mare a chiudere la pratica. Il cinema "moderno”, per il regista non ha altri sviluppi: un bel colpo di spugna sugli ultimi cinquant’anni.
Il finale è magico, ma sconsolato, per chi non ha sciolto gli ormeggi e ha scelto la libertà nel corso delle due ore e quaranta del film. Io ho militato nell’eroica resistenza dei pochi. Gli spettatori finali di Bi Gan convergono alla spicciolata in una sala da cinema. Non sono uomini, sono spettri di luce. E quando sullo schermo compare il fatidico The End le poltrone si sgretolano lentamente, il tetto precipita, e restano solo macerie.
È chiaramente la distopia luttuosa, il tramonto di un secolo d’arte nella sua forma di consumo primaria, che il regista evoca per combatterla. «Gli schermi – dice – stanno diventando sempre più piccoli. Volevo evocare le sensazioni antiche prodotte dal guardare i film nelle sale». Tecnica superlativa, ma la suggestione non può rimpiazzare integralmente la narrazione, per noi spettatori ordinari, che con l’”astrazione sublime” perseguita dall’avanguardista cinese – parole sue – hanno poca dimestichezza.
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