Aggiornamento 24 maggio 2025: il regista iraniano dissidente Jafar Panahi si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes per il film “Un simple accident”. In questo articolo, Teresa Marchesi recensisce la pellicola.


Amare il cinema di Jafar Panahi solo perché è ormai un simbolo globale di resistenza politica e integrità artistica sarebbe fargli torto marcio. Lavora su tempi, suspense e inquadrature con una sapienza da gigante. E lo conferma con Un simple accident, che porta a Cannes in concorso e che sarà distribuito da noi da Lucky Red, titolo italiano ancora da definire.

Come sempre, anche questa sua opera è girata rigorosamente in clandestinità, perché su di lui, oltre a varie condanne per «propaganda contro il sistema» e a ripetuti ritiri di passaporto, pende il divieto assoluto di fare film. La domanda è: tornerà in patria, quell’Iran che si rifiuta di lasciare, dopo questo film? E con che prospettive?

È riuscito sempre a sfornare, con gli espedienti più ingegnosi, perfino in residenza forzata in un villaggio sperduto, metafore potenti. Ma questa volta mette faccia a faccia, non per modo di dire, le vittime del regime e i suoi torturatori. È una circostanza banale e fortuita – come da titolo – a scatenare reazioni a catena, con un effetto domino imprevedibile e un colpo di scena finale spiazzante.

Una macchina in panne nella campagna notturna, un passo particolare, inconfondibile, che risuona e un uomo che non riesce a dimenticare. Vahid non era un dissidente politico. Era un operaio che manifestava con i compagni perché da otto mesi erano senza salario. Ha pagato con la galera, le torture, la perdita del lavoro e della sua donna, suicida.

La storia

Quel borghese tranquillo, senza una gamba, in viaggio con sua moglie e sua figlia, è il fantasma di un incubo. O almeno gli sembra. Lo segue, lo stordisce con un colpo di pala, e sta scavandogli una fossa nel deserto quando le proteste del rapito gli insinuano il dubbio. Inizia così una peregrinazione che via via raduna sul furgone con il prigioniero, a volte per caso, uomini e donne che hanno patito lo stesso aguzzino: una fotografa di matrimoni e la sposa in bianco pronta alle nozze per l’indomani, il promesso sposo in tiro e un riottoso ex della fotografa.

Nessuno è veramente certo che si tratti della stessa persona. Le tappe sono altrettanto casuali e spesso spassose, puntualmente scandite dalla richiesta di oboli che, dai benzinai ai vigili alle infermiere, sono il costume del paese. In mancanza di cash, con carta di credito.

Perché Un simple accident ha la leggerezza formale di una commedia, ma è imbottito di materiale esplosivo. Tutti hanno addosso una rabbia incontenibile, ma non se la sentono di diventare uguali ai loro oppressori. «Non siamo assassini. Non siamo come loro». Gli orrori subiti in carcere vengono snocciolati a poco a poco in dettaglio, però: appesi per ora a testa in giù, impiccati per finta perché si piscino addosso, le vergini violentate perché non vengano accolte in Paradiso, spiriti e corpi fiaccati, menzogne diffamanti sulle presunte confessioni.

A contraddistinguere le vittime è invece la pietà. Un istinto più forte di loro. Tanto che quando al telefono del rapito risuona il pianto di sua figlia, che chiede aiuto perché la mamma sta per partorire, il furgone diventa salvezza, si fa ambulanza, il rapitore paga il parto con carta di credito e perfino i dolcetti per festeggiare. Per la mancia all’ostetrica si fa la colletta. La tentazione di spoilerare è fortissima, perché il finale è un colpo d’ala. Ma demolirei una suspense che Panahi costruisce da magistrale virtuoso.

Ha vinto tanto, tra Venezia, Berlino e Cannes, mai però una Palma d’oro. Ed è in arrivo in concorso anche un altro talentuoso regista iraniano, Saeed Roustaee, titolare di uno dei film più belli degli ultimi anni, Leila e i suoi fratelli, che era a Cannes nel 2022. Con molti fumosi pronostici sul Palmarès ma ancora nessuna evidenza lampante – e non è segno buono per la selezione – staremo a vedere.

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