L’amicizia tra bambine è una cosa complicata, me lo ricordo molto bene. Le mie amicizie erano piene di furti, gelosie, nascondimenti. Ci rubavamo le bambole, ci giudicavamo i vestiti, ci davamo terribili soprannomi e poi mano nella mano camminavamo nei giardini, ci scambiavamo le merende, ci alleavamo contro le ingiustizie.

C’è qualcosa di feroce e liberissimo nell’essere amici durante l’infanzia, una lealtà spregiudicata, un affetto simbiotico e un non sopportare alcuna separazione. Solo nelle pagine delle scrittrici ho ritrovato la forza bizzarra e tenerissime di quel mondo bambino, che ha bisogno di tanta sincerità e della caduta delle ipocrisie per essere raccontato. L’infanzia, infatti, è terreno brullo e scosceso che riserva la sorpresa di uno splendido panorama, ma anche di un imprevedibile dirupo.

Amiche letterarie 

Penso subito a una delle prima scene di L’amica geniale di Elena Ferrante quando Lila e Lenù sono nel cortile a giocare con le loro bambole. Una scena a cui sono tornata negli anni per rileggerla ancora e sentirmi parte di quel legame assoluto che comincia proprio lì, nel rione, sotto alle finestre aperte dei palazzoni popolari, in mezzo alla Napoli più semplice.

All’inizio le due bambine non interagiscono tra loro, in silenzio ognuna gioca con la propria bambola ma segue quello che l’altra sta facendo. Lenù sente un’attrazione fortissima per la bambola di Lila e quasi senza rendersene conto la imita nel modo in cui la veste, la fa muovere e parlare.

Quando finalmente si avvicinano e Lila chiede a Lenù di fare scambio di bambola succede l’imprevisto: Lila in un gesto molesto getta la bambola di Lenù in uno scantinato e la sfida ad andarla a riprendere, la sfida sulla paura. In questo primo momento in cui le due si incontrano ci sono già le dinamiche di fuga e rincorsa, piccole invidie e grandi dolori che connoteranno la loro relazione. Il passo di Lenù si farà sull’andatura di Lila: «Decisi che dovevo regolarmi su quella bambina, non perderla mai di vista, anche se si fosse infastidita e mi avesse scacciata».

Quando ho letto Chiara (Einaudi 2025) di Antonella Lattanzi ho capito di avere davanti qualcosa che anche io avevo provato da bambina: un’amicizia viscerale, totalizzante, una grande storia d’amore mai realizzato a pieno che lascia nel cuore le stesse tracce di un incendio. Marianna, la voce narrante, e Chiara, che dà il titolo al libro, sono due bambine nella Bari degli anni Ottanta, dove non si sfidano a non avere paura, ma tutt’altro: è la paura che provano entrambe a salvarle da un’infanzia impossibile.

Chiara e Marianna non sono solo due amiche, sono un intero mondo di desideri e proiezioni, di reazioni e promesse. Diverse, diversissime: Marianna tragica, esagerata, tutta corpo, tutta voglia e tensione; Chiara razionale, meno disinvolta, ma resistente, più timida, meno socievole. Una ama le merendine, l’altra i panini con la frittata, una sarà un’adolescente ribelle, l’altra una compagna quasi invisibile, una ha un padre che quando diventa un mostro si ferisce, l’altra ha un padre che quando digrigna i denti è pronto a mordere.

È il disastro dell’essere figlie che le accomuna, l’aver capito che nelle reciproche case si nascondono dei lupi, e che per riuscire a superare l’infanzia non possono che difendersi insieme, trovarsi.

Chiara diventa lo specchio di Marianna, che ne cerca costantemente l’attenzione, che vorrebbe non allontanarsene mai: l’anima gemella a cui dire tutto e non dire niente. Spesso infatti non serve parlare, uno sguardo o una singola parola possono già raccontare. Le amiche, insieme, captano nell’aria i cambiamenti famigliari, sentono gli umori volgere al peggio e se le cose raggiungono il punto di rottura loro cominciano a correre.

Il codice 

Run” è la loro parola in codice per il pericolo imminente, “run” vuol dire inizia a scappare prima che ti prendano, vuol dire se gli adulti hanno intenzione di punirti tu nasconditi, scompari. Correre insieme non è quindi un gioco per Chiara e Marianna, ma un gesto prezioso e una delle parole che compongono il loro “lessico amicale”.

Come ci ha insegnato Natalia Ginzburg, infatti, le famiglie hanno un proprio linguaggio, ogni famiglia negli anni di convivenza ha creato un lessico interno, incomprensibile agli altri, una maniera per comunicare che riguarda solo chi ne fa parte. Allo stesso modo in Chiara Lattanzi racconta come questo accada anche tra le amiche, che piano piano più diventano intime più inventano la propria lingua, sovrappongono al mondo la propria visione, il proprio vocabolario.

Leggendo ho ricordato che alle medie avevo in classe due migliori amiche e che le invidiavo moltissimo perché tra loro parlavano una lingua inventata, erano in grado fluentemente di dirsi cose con delle parole assurde, e più provavano a spiegarmi come funzionasse questo loro modo d’intendersi, più io non capivo e mi avvilivo.

Non conoscere la loro lingua mi estrometteva, ero insignificante: non potevo attribuire il giusto significato alle parole e per questo anche il mio valore simbolico era scarso. Il terreno della conquista era quello verbale, le parole segnavano la vicinanza o la lontananza.

Così devono apparire anche Chiara e Marianna all’esterno, come qualcosa che non si può spezzare, come una monade, un organismo autosufficiente. Per Marianna loro sono tutto e non c’è spazio per altro, né per altre amiche né per i ragazzi, che in nulla possono sostituire Chiara e il loro legame.

Nella scrittura di Lattanzi c’è la voce scanzonata, ossessiva, viva di Marianna, una voce innamorata e spaventata insieme, che però ci regala anche momenti di dolcezza e stupore. È Marianna a trascinarci nella lettura, che continua veloce fino all’ultima pagina.

La solitudine 

Saper raccontare la pancia di un’amicizia così è un esercizio raffinato che coinvolge anche l’altra faccia della medaglia: la paura della solitudine, del dover affrontare i mostri da sole, come spesso accade.

Proprio la solitudine mi fa pensare a un’altra scrittrice, Elsa Morante, che nei suoi Aneddoti infantili racconta di essere stata dispotica con le amiche, di averle sempre costrette a fare ciò che voleva, di non essere mai riuscita a entrare sotto la loro pelle. Se dall’esterno Morante bambina poteva sembrare già dotta, geniale, quasi altezzosa, dentro lei si disprezzava, dentro sentiva di essere lei il mostro, qualcosa di nero e terribile.

Così nasceva in lei la voglia di piangere, perché non aveva trovato la sua “Chiara”, la sua metà dell’infanzia in cui rifugiarsi. La sua amica dell’epoca era infatti la bambina Giacinta, molto più ricca di lei, “patrizia”, e quindi insopportabile. Giacinta veniva costretta da Elsa a giochi molesti e cattivi, e l’altra pur di non rimanere sola li subiva, li venerava, era ostaggio della sua tiranna. Le bambine chiedevano a Morante di aiutarle con i compiti, quando lei avrebbe tanto voluto conoscere i loro segreti.

Che sia per solitudine, che sia per paura, che sia per amore, le bambine sanno che l’amicizia è il luogo del segreto e le scrittrici, solo loro, sanno come svelarlo.

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