L’ultima parte del processo di pubblicazione di un libro corrisponde per me al passaggio attraverso due fasi fra loro molto diverse, quasi contrapposte. La prima è quella in cui febbrilmente rifinisco e limo il testo, rileggendolo un numero spropositato di volte, fino quasi al limite della sazietà semantica – la condizione in cui una parola viene ripetuta talmente tante volte che finisce per perdere il suo significato –, dopodiché passo alla fase successiva, quella in cui ormai il libro è stato stampato e tutto sommato a rileggerlo ancora c’è solo da rimetterci perché per quanto io possa essere convinto di aver dato l’imprimatur a un testo ormai levigato a dovere, a mente fredda potrebbero saltare fuori una virgola dubbia, un aggettivo rispetto al quale avrei potuto fare meglio, un termine scientifico usato in maniera parzialmente impropria e chissà cos’altro ancora. In fondo è per questo che la fase precedente è tanto concitata e lo è anche se le bozze sono quelle di un libro che ha già avuto una gestazione lunga e complessa, lungamente meditata. Quando la posta in palio è alta, la macerazione sembra non bastare mai.

Giunto al momento di licenziare Odio, il mio secondo romanzo, un libro che ha preso quattro anni di lavoro, avevo riletto per l’ennesima volta tutte le sue 530 pagine – impiegando un giorno e una notte visto che naturalmente a quel punto non c’era più tempo – e lo avevo fatto sicuro di non incontrare più alcun problema. Scoprii invece che avevo sbagliato il nome dell’isotopo radioattivo con cui è stato avvelenato Aleksandr Litvinenko (forse in un omaggio inconscio alla scaramanzia avevo scritto Polonio 17, quando il numero corretto è 210) e che un’auto che era apparsa la prima volta come azzurra, quasi trecento pagine più tardi era diventata blu. Entrambe le imprecisioni erano sfuggite non solo a me ma anche ai redattori della casa editrice. Il romanzo in questione non è un libro di spionaggio, né un giallo con colpevole un automobilista: il polonio era nascosto in una breve fantasia paranoica del protagonista mentre l’auto era ai fini del racconto un elemento del tutto marginale, nascosto nei rivoli delle linee narrative minori. Non di meno tutto si deve tenere.

Dolori post-parto

Per anni mi ero concentrato – a tratti ossessivamente – su questioni più ampie: i piani narrativi, linguistici e filosofici del romanzo, pensando e ripensando la drammaturgia, lavorando la lingua, mi ero soprattutto sforzato di far convivere i diversi livelli dell’opera – ognuno con le sue sfide e le sue complicazioni – all’interno di una struttura narrativa che mantenesse vivo nel lettore il desiderio di voltare la pagina. Alcuni particolari minori, e nello specifico quelli di cui mi sentivo più certo, mi ero ripromesso di ricontrollarli più avanti, convinto che per quanto necessario si trattasse comunque di un eccesso di zelo. Il problema è che su un romanzo lungo e complesso, i particolari apparentemente scontati che si accumulano per un controllo successivo diventano presto un’infinità.

Il risultato è che qualcosa è sfuggito anche a quella rilettura finale, così nel testo andato in stampa viene nominato come noto un fatto la cui prima menzione era in realtà scomparsa durante una delle ultime revisioni. Fortunatamente anche in questo caso si tratta a malapena di una nota di colore, ben lontana dal centro del libro e, anzi, piuttosto difficile da cogliere per il lettore, cionondimeno mi capita talvolta ancora di pensarci con un certo rammarico.

Le casistiche dei dolori post parto sono comunque varie e con il passare del tempo possono nascere problemi ben più radicali di questo genere di bagatelle redazionali, possono cioè presentarsi ripensamenti più vicini al cuore del romanzo. Normalmente si ritiene che non sia il caso di mettere mano in maniera sostanziale a libri già pubblicati, tuttavia le eccezioni sono numerose e talvolta illustri. Sappiamo che Honoré de Balzac continuò a riscrivere i suoi libri per tutta la vita, talvolta pretendendo modifiche sulle modifiche anche quando tutto era ormai pronto per la stampa e cambiare ancora una volta gli impianti costava del denaro che lo scrittore finiva – con il pessimo senso degli affari che lo accompagnò per tutta la vita – per sborsare di tasca propria. Fra gli italiani è stato un noto ri-scrittore Alberto Arbasino, così come lo è Aldo Busi; quest’ultimo qualche anno fa ha accolto a casa sua un Nicola Lagioia nelle vesti di inviato di Internazionale leggendogli qualche nuova pagina di un romanzo appena pubblicato in altra forma. Un caso di scrittore infinito, nel senso di incapace di mettere la parola fine alle sue opere, è Joseph Grand, il personaggio de La Peste di Albert Camus, un uomo che da una vita lavora allo stesso incipit, senza mai riuscire a decidersi.

Mi è capitato qualche anno fa di tenere un corso di scrittura e di avere fra i gli alunni più dotati un novello Grand, un aspirante scrittore che mi è poi sembrato più interessato a far circolare fra gli addetti ai lavori il manoscritto del suo primo romanzo piuttosto che a pubblicarlo davvero. Ogni volta che la faccenda torna fuori non posso fare a meno di pensare che si potrebbe passare una vita intera così, sospesi in una possibilità, ugualmente lontani dalla vittoria e dalla sconfitta, sospetto anzi che fra le scelte scomode questa sia una delle più agevoli. Oppure mi sbaglio e, proprio perché sarà stato meditato tutti questi anni, quando finalmente sarà pubblicato ci troveremo di fronte a un grande romanzo, un libro che non avrà più bisogno di modifica alcuna e sarà come scritto nella pietra.

Impossibile dirlo ora, quello che è certo è che la scrittura che non finisce mai e quella che ricomincia dopo la prima pubblicazione sono due aspetti diversi dalla stessa pulsione: quella all’opera mai conclusa una volta per tutte; la differenza è il coinvolgimento del pubblico nel processo.

Una nuova edizione

Confesso che come lettore l’indeterminatezza di un romanzo nel tempo è un concetto che non mi ha mai affascinato, come quasi tutti sono affezionato alle mie opere preferite e tendo a pensarle anche un po’ mie, per quanto si tratti di una pretesa priva di senso dato che il padrone di un testo è il suo autore e l’unico altro soggetto che possa avanzare qualche pretesa semmai è il testo stesso. L’idea che l’autore possa mettere mano a un libro già pubblicato mi è cominciata a sembrare vagamente praticabile – anzi, diciamo pure necessaria – solo quando si è trattato di una riflessione sulla nuova edizione di un mio libro.

Si potrebbe populisticamente pensare che il passare dall’altro lato della barricata renda accettabili soluzioni prima osteggiate, personalmente ritengo che il punto non sia questo quanto piuttosto un maggiore accesso alle informazioni. Si sanno cioè più cose. Nessuno come l’autore di un romanzo – se compie il suo lavoro con una certa serietà – conosce i segreti di un suo libro, sa cosa si era proposto di fare e può giudicare quanto il libro sia riuscito o meno a raggiungere i suoi obiettivi, dato che come notava Rodolfo Wilcock la critica «consisteva e consiste universalmente nel rimproverare a un autore di non aver fatto quel che non intendeva di fare». Vedere il proprio libro andare da solo per il mondo aggiunge quindi uno strato fondamentale a questa capacità di valutazione. Se pure il primato è dell’autore questo non significa che lui e le sue opere vivano nel vuoto.

Sorvolando sulle velleità e sui piccoli scampoli di gloria, pubblicare un libro porta con sé diversi oneri ma anche qualche sostanziale vantaggio: se il libro riesce ad avere un certo impatto dischiude al suo autore angoli di realtà che prima gli erano preclusi, gli permette di conoscere persone che con ogni probabilità non avrebbe mai conosciuto e auspicabilmente gli lascia più tempo per scrivere il libro successivo, così come per leggere i libri altrui. Più importante ancora, la pubblicazione fa dell’autore non un teorico del romanzo ma lo scrittore di un’opera compiuta ed è un dato di fatto che molte cose si imparano fino in fondo solo facendole: chiudere un romanzo, darlo al pubblico, tornare a rileggerlo dopo anni, in un punto più avanzato del proprio percorso artistico è un’esperienza preziosa, per molti versi unica. Per questo chi si perde nella ricerca lunga troppi anni dell’opera prima perfetta corre il rischio concreto di allontanarsi dall’obiettivo piuttosto che di avvicinarsi. Se è stato fatto qualche errore, vederlo cristallizzato aiuta a capirlo più a fondo rispetto al semplice intuirlo dentro il magma di un progetto ancora indefinito dove tutto è ancora possibile..

Scrivere di notte

Lo stesso vale per i meriti: un libro giovanile può talvolta portare con sé una freschezza e un’intensità che possono facilmente andare perse nei meandri della vita e dei rapporti borghesi (per mancanza di una parola migliore) tipici della società letteraria. Il libro a cui si rischia più spesso di guardare con occhi diversi è per ovvi motivi il romanzo d’esordio, nel mio caso Lascia stare la gallina (da qui in poi Lsg), un romanzo corale pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 2015 e appena ripubblicato negli Oscar Mondadori. Una buona parte della prima edizione di Lsg era stata scritta di notte perché in quel periodo facevo altri due lavori e nonostante siano passati pochi anni ripensandoci adesso mi sembra uno scenario onirico, quasi una scena accaduta ad altri: oggi non avrei mai l’energia di scrivere fino alle 4 del mattino e poi svegliarmi poche ore dopo. Neppure allora, comunque, ero completamente lucido a quell’ora della notte. Forse è stata anche questa modalità di scrittura a cavallo fra conscio e inconscio a dare a Lsg la sua urgenza quasi straripante, il ritmo concitato e l’alternarsi di stili che col passare del tempo ha fatto in modo che questo romanzo si guadagnasse molti lettori affezionati.

Senza sfociare nelle medesime fattispecie né in fondo neppure nel reato, l’ansia quotidiana di Salvatore Petrachi – il faccendiere al centro del romanzo – e la sua agenda infinita di problemi da risolvere erano in quel periodo anche un po’ i miei. Ciononostante Lsg e senza dubbio il libro che mi sono divertito di più a scrivere o, farei meglio a dire, quello che mi ha emozionato di più perché alcune scene sono state dolorose da creare quasi quanto è stato doloroso per i personaggi subirle, il che sarà pure un cliché ma è esattamente quello che accade quando la scrittura entra in quella che nello sport viene chiamata “la zona”, il momento in cui tutto, spesso in maniera inaspettata e apparentemente inspiegabile, incomincia ad accadere con inedita naturalità.

Si tratta in realtà del culmine del processo di accumulazione romanzesco e non posso escludere che sia il raggiungimento di questo stato così piacevole sia uno dei motivi per cui i miei due romanzi siano entrambi piuttosto lunghi.

Tornando a Lsg, dopo la pubblicazione con il passare del tempo ho cominciato a vedere nel testo anche una serie di cose che avrei potuto fare meglio e altre senza le quali il libro non avrebbe perso niente, anzi. Queste ultime erano soprattutto le parti inserite nel romanzo per utilizzare tutte le ricerche che avevo effettuato, sezioni che senza rendermene conto avevo aggiunto più per non perdere il lavoro di scavo che per una loro effettiva necessità drammaturgica. Quando si è prospettata la possibilità di una nuova edizione ho quindi agito andando principalmente in due direzioni: eliminare queste pagine ridondanti – che si sono poi rivelate essere quelle più di genere – e cercare di migliorare “l’aerodinamicità” del testo, il ritmo, l’incisività e la struttura senza ledere la vena vagamente onirica di cui parlavo sopra e senza eliminare il grottesco, il comico, soprattutto senza normalizzare quegli eccessi che oggi come allora mi sembrano strettamente intrecciati ai caratteri migliori di questo romanzo.

Il comico in particolare pone delle sfide peculiari perché in alcune sue sfumature è un valore eminentemente storico, in altre è più universale e archetipico e il confine è spesso più sottile di quanto non si pensi comunemente. Il tempo da questo punto di vista si rivela un eccellente mezzo di contrasto. In Odio una certa ironia esistenziale fa da contrappunto agli strati più profondi del romanzo, in Lsg la comicità emerge sì dai paradossi della condizione umana ma anche dal sesso, dalla corporalità, dall’irruenza dei personaggi. Centrale è stata l’idea che la nuova edizione non dovesse diventare il libro che scriverei oggi sullo stesso tema ma dovesse invece mantenere la sua identità originale, in omaggio alla sua natura coerente, ai suoi lettori affezionati e anche un po’ al giovane me che scriveva di notte in un sottotetto (come nei peggiori stereotipi!) senza sapere se un giorno quel suo romanzo qualcuno lo avrebbe mai pubblicato.

Il problema della coerenza

Odio è un romanzo letterario che utilizza la forma dell’autobiografia-confessione per indagare alcuni aspetti sorprendentemente atavici della contemporaneità tecnologica, Lsg è invece un romanzo polifonico di provincia dove la polifonia non è solo data dalla differenza fra i diversi io narranti ma anche dalle diversità degli stili e dei registri linguistici: prima e terza persona, tonalità di italiano molto diverse fra loro e intramezzate da diverse densità di dialetto. Sfide molto differenti da quelle poste da un romanzo con un narratore unico che si esprime con una lingua dichiaratamente letteraria. Questi problemi, già al centro della prima stesura, si sono riproposti anche nella revisione, rendendo urgente il problema della coerenza interna ai vari livelli che concorrono a definire ogni personaggio almeno quanto quello dell’unità del romanzo nel suo complesso.

Di certo quello che non volevo fare, e infatti non ho fatto, era edulcorare il buco nero del romanzo, la cinetica forza oscura al suo centro: Salvatore Petrachi. Personaggio sbagliato, eccessivo, politicamente scorretto ma credo anche umanissimo e che tale doveva rimanere. Il lavoro per questa nuova edizione è stato quindi di affilatura, lo scopo era tirare fuori il buono originario che mi sembrava ci fosse nel romanzo, senza lasciare che qua e là le inesperienze e le derive verso territori nei confronti dei quali ora avverto un numero eccessivo di gradi di separazione intaccassero il piacere della lettura. Insomma se non ho lasciato stare la gallina è stato soltanto per renderla più ruspante che mai, e nel farlo ho applicato una sensibilità che senza la prima pubblicazione del libro è probabile che non avrei mai sviluppato, non in questi termini quanto meno. Da questo punto di vista quindi è un po’ come se il romanzo stesso avesse collaborato alla sua riscrittura, in una sorta di relazione simbiotica.

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