Ricordo bene quando iniziò il mio rapporto con la comicità e la satira televisive: era metà dicembre 1987, probabilmente il 16 o il 17. Stavo per uscire per andare al cinema, quando sullo schermo acceso apparve Renzo Arbore, che aveva inaugurato da un paio di giorni la sua trasmissione Indietro tutta. Catturato dal tono surreale del programma, rimasi in casa a guardare quella puntata, e molte della sessantina che seguirono.

Nel 1985, ai tempi di Quelli della notte, io ero in sabbatico negli Stati Uniti: all’epoca non c’era la rete, e quando si stava lontani dall’Italia non si sapeva molto di ciò che vi succedeva. Né, confesso, a me importava particolarmente. Ma due anni dopo abboccai subito all’amo, e ricordo che con gli studenti dicevamo che il programma di Arbore veniva dopo il mio corso serale, che si chiamava Teoria dei Grafi, abbreviato TG: la sigla di chiusura della trasmissione si intitolava infatti Vengo dopo il tiggì…

L’incontro con Arbore

Ricordo altrettanto bene quando incontrai Arbore per la prima volta: era ormai il 2000, e il mio primo libro divulgativo, Il Vangelo secondo la Scienza, aveva attirato l’attenzione di Lorenza Foschini, che per combinazione era la conduttrice di quel “tiggì” del 1985. Lei mi invitò a partecipare alla sua nuova trasmissione, Il filo di Arianna, e nelle puntate dei due o tre anni seguenti vi feci molti incontri interessanti, da Paolo Crepet a Valerio Massimo Manfredi.

Una sera, dopo una registrazione, la Foschini mi portò a cena da Marisa Garito, rettrice dell’avveniristica università telematica Rai Sat Nettuno: così in un colpo solo incontrai sia lei, che mi scritturò per un intero corso televisivo di logica matematica, sia Arbore. C’erano anche Achille Occhetto e Claudio Petruccioli, e da bravo matematico io rimasi tutta la sera in silenzio, come un pesce fuor d’acqua, a osservare e ascoltare un mondo che non conoscevo.

I due politici non li rividi mai più, ma Arbore fortunatamente sì, anche se meno di quanto mi sarebbe piaciuto. A volte ci incontravamo per motivi istituzionali, come quando partecipammo insieme a Sanremo, il 19 giugno 2009, alle celebrazioni per il centenario dell’assegnazione del premio Nobel a Guglielmo Marconi, inventore della radio, insieme a Joseph Taylor, scopritore delle pulsar, e premio Nobel pure lui. Altre volte per motivi più ludici: ad esempio, una presentazione di un libro di Luciano De Crescenzo, nella quale ci divertimmo insieme anche a Marisa Laurito e Lina Wertmüller.

Un giorno Arbore, che ormai conosceva il mio fascino per certe cose, mi disse che stava pensando a un nuovo programma di satira: questa volta, non più della televisione commerciale, ma degli ormai imperanti talk show. Mi chiese di fargli una lista di intellettuali che potessero far ridere involontariamente, dicendo seriamente le cose che pensavano. Non avevo che l’imbarazzo della scelta, a partire da me stesso, e feci la lista, ma il programma non andò in porto: io e i miei colleghi abbiamo così dovuto limitarci a continuare a far ridere in privato, malgré nous, invece che in pubblico.

Da De Crescenzo a Dario Fo

De Crescenzo lo frequentai molto più di Arbore, perché avevamo l’abitudine di presentare insieme d’estate i nostri libri, che pubblicavamo con lo stesso editore. Agli inizi ci divertimmo molto, soprattutto quando andavo a trovarlo a casa sua o nel suo studio, ai Fori Imperiali. Ma dopo qualche anno lui incominciò a perdere la memoria, e a un certo punto diventò triste sentirlo ripetere la stessa battuta più volte in una stessa serata: ad esempio, «Le donne mi piacciono ancora, ma non mi ricordo perché». Quando poi incomincio a dire, scherzando solo a metà, che non aveva ancora letto il libro che aveva appena pubblicato, decisi di non partecipare più a quello che era ormai diventato un cinico sfruttamento del suo nome, quasi alle sue spalle.

A una delle trasmissioni della Foschini, il 20 novembre 2000, avevo nel frattempo incontrato Dario Fo, col quale si era subito stabilita un’intesa. Frequentare lui era più facile, visto che abitavamo vicini, uno a Milano e l’altro a Torino, e ho avuto spesso questa fortuna. Facemmo insieme memorabili presentazioni, spesso senza temere di unire sacro e profano, in tutti i sensi dell’espressione. A un paio di eventi che io organizzai, ad esempio, lui recitò un monologo astronomico in dialetto padovano di cui attribuiva seriamente la paternità a Galileo, ma che aveva ovviamente inventato lui di sana pianta.

A un Festival di matematica di Roma pensai di imitarlo, facendo io stesso una conferenza su un matematico inesistente, ma all’Auditorium temettero che potesse essere controproducente per la reputazione loro e mia, e così lasciai perdere. Allo stesso Festival, Fo fece invece una memorabile lezione sulla prospettiva, memore dei suoi studi giovanili all’Accademia di Belle Arti. Anche se, per quanto mi riguarda, la più bella presa in giro me la fece il 30 ottobre 2007, quando uscì in Inghilterra una lista dei cento maggiori geni viventi, nella quale c’era un solo italiano: lui, appunto. Il Corriere della Sera gli domandò quali altri ci avrebbe messo, e Fo rispose: «Penso il matematico Odifreddi, che è un grande genio, e meriterebbe il Nobel». Poi, capì di aver un po’ esagerato, anche per i suoi standard, e si fece perdonare regalandomi un suo bel quadro raffigurante l’Albero della Vita.

Tv nazional-popolare

Ma il mio battesimo televisivo in un vero programma comico o satirico avvenne soltanto nel 2007. Un giorno mi telefonò Maurizio Crozza, che io conoscevo solo per sentito dire, a causa delle sue imitazioni di papa Ratzinger. Venne a trovarmi a casa, per parlarmi del suo programma Crozza Italia, e mi chiese se ero interessato a partecipare come ospite fisso. Non me lo feci ripetere due volte, e per due intere stagioni finii appollaiato su un trespolo, dal quale ogni tanto intervenivo facendo qualche domanda ai variegati ospiti di passaggio.

Quel periodo coincise con la mia decisione di andare in pensione dall’università per dedicarmi alla divulgazione, nella quale spero di aver portato qualcuno degli insegnamenti dei comici e dei satiri che considero tra i miei maestri, oltre ad annoverarli tra i miei amici.

Sempre nel 2007 Bonolis mi intervistò nella seconda edizione di Il senso della vita, ed è forse lui il comico che ho trovato più congeniale e affine. Ho imparato a conoscerlo meglio nel 2011, quando mi chiamò come ospite fisso nella quarta edizione dello stesso programma, con l’impossibile compito di fare ogni volta una lezioncina matematica alla lavagna, con due allievi ingestibili come lui stesso e il suo alter ego, Luca Laurenti. Ma la volta che mi sono divertito di più è stato il 6 maggio 2016, come capitano della squadra (vincente) del Reale nell’ultima puntata di Ciao Darwin 7: non avevo mai visto il programma, e sono dunque stato preso alla sprovvista sia dal comportamento del variopinto pubblico, sia dalle staffilate che Bonolis gli riservava senza pietà.

Tra le mie incursioni nella tv popolare, quella fu la più criticata: soprattutto da chi pensa che la gente come me non dovrebbe partecipare a certi programmi “nazional-popolari”, benché la gente come lui possa evidentemente guardarli. Io i social non li uso e non li seguo, se no avrei capitanato la squadra (perdente) del Virtuale, ma mi dicono che comunque ci sono stati anche coloro che hanno capito che certe partecipazioni non solo possono essere divertenti per chi le fa, ma intendono anche riaffermare lo spirito antiaccademico illustrato a suo tempo da Galileo nella poesia Contro il portar la toga.

A proposito di toscani antiaccademici, Roberto Benigni lo conobbi proprio grazie alla prima intervista di Bonolis: mi chiamò lui dopo averla vista, e ci siamo incontrati varie volte, soprattutto in occasioni legate ai suoi spettacoli su Dante: non solo a Roma, ma anche a Firenze e a Cuneo. Nel 2009, per il quarto centenario delle osservazioni al cannocchiale di Galileo, gli feci io un’intervista su Radio3, il giorno d’inizio dell’anno scolastico. Ma non sono mai riuscito a convincerlo a leggere Galileo, invece che Dante, in occasione di uno dei Festival di Matematica. Negli ultimi anni purtroppo ci siamo un po’ persi, anche perché in lui l’antiaccademico è ormai svanito da tempo, e ha concesso sempre più spazio al comico di stato e al predicatore da chiesa.

Mondi stranianti

Una certa vena predicatoria l’ha sfoderata negli ultimi anni anche Alessandro Bergonzoni, che rimane però “il miglior fabbro” in circolazione. Lui l’ho conosciuto meno di altri, ma l’ho apprezzato più di tutti, per la sua capacità di domare e assoggettare il linguaggio ai suoi voleri: una qualità che un logico di professione come me non può che ammirare e invidiare. Insieme abbiamo fatto qualcosa alla radio, in varie occasioni, ma con lui non è possibile collaborare: i suoi spettacoli sono un mondo solipsistico in cui nessuno può entrare, e che si possono soltanto osservare e godere dal di fuori.

Tanto Bergonzoni è esclusivo, quanto Valerio Lundini è inclusivo. Il suo studio televisivo accoglie chiunque, dal colto pubblico all’inclita guarnigione. Ma per penetrarci, sia da spettatore che da ospite, bisogna passare attraverso lo specchio: chi ci riesce si ritrova in un mondo rovesciato, dove le leggi della logica risultano invertite, e dove i discorsi che si fanno riecheggiano il grammelot di Dario Fo o il lonfo di Fosco Maraini. Cioè, si sentono e si emettono suoni che sembrano significanti, ma che in realtà non hanno alcun senso. E per un amante di Lewis Carroll, come me, aver potuto partecipare a una puntata di questo non-senso è stato come ritrovarsi finalmente a casa.

Partecipare a una puntata di Felicissima sera di Pio e Amedeo è stato invece come ritornare da Bonolis, in un mondo altrettanto straniante quanto quello di Lundini, ma per motivi opposti. Personalmente, considero queste incursioni nella comicità, nella satira e nell’assurdo altrettante boccate d’aria fresca, in un mondo che ci asfissia con le sue seriose stupidità e le sue stupide seriosità. Il vero motivo per cui da sempre frequento certe compagnie di giro è che, senza un po’di ironia, la vita sarebbe semplicemente impossibile da sopportare.

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