Perché Stranger Things ci commuove così tanto? Perché ci fa piangere di commozione più che spaventarci? La risposta potrebbe non essere così banale e riguarda una novità introdotta dalla nuova forma di narrazione seriale rispetto al tempo della storia. Se prima il tempo di una storia era dilatabile solo in modo posticcio, con le serie questa espansione può essere naturale, lo spettatore cioè può assistere alla crescita o all’invecchiamento dei personaggi in modo effettivo, a mano a mano che gli anni passano e le stagioni si susseguono.

Nel lungometraggio cinematografico tradizionale gli attori vengono ringiovaniti o invecchiati attraverso estenuanti quanto laboriose sedute di trucco, oppure si può ricorrere all’artificio di utilizzare per lo stesso personaggio attori diversi (stratagemma a cui è stata costretta anche la produzione di una serie eccellente come The Crown, il cui unico difetto, a ben vedere, è consistito appunto nel dover cambiare gli attori per seguire quanto più fedelmente possibile la storia della corona, così i momenti di maggior spaesamento e minor empatia arrivano proprio quando la regina adulta sostituisce la regina giovane, e quando la regina vecchia deve rimpiazzare la regina adulta).

Attori e non personaggi

Così, in Stranger Things, noi crediamo di seguire e appassionarci alle avventure di Mike, Dustin, Lucas e Eleven, ma in realtà stiamo anche e forse soprattutto seguendo e appassionandoci alle biografie di Finn Michael Wolfhard, Gaten Matarazzo, Caleb McLaughlin e Millie Bobby Brown. In un modo mai visto prima le serie raccontano le vite degli attori oltre a quelle dei personaggi.

È come se la lunghezza della storia – la possibilità di venire parcellizzata ad libitum – attivasse due livelli di visione spesso sovrapposti ma distinti: il primo riguarda il plot, come si evolve la vicenda (a sua volta fatta di sottotrame e personaggi gregari che entrano ed escono di scena); il secondo riguarda direttamente la vita degli attori, non tanto o non solo la loro biografia, il gossip (chi frequentano e cosa fanno fuori dal set) o la loro stessa carriera (chi ha più successo?), quanto l’evoluzione filmata di ciascuno di loro, il modo in cui il tempo li cambia, li segna.

È la tragedia che ci fa più paura, quella che ci mette alle corde, quella a cui non sappiamo cosa opporre: la nostra mortalità. In questo senso Henry/01/Vecna è la rappresentazione tangibile di questo spavento ancestrale, che riguarda non solo tutti gli spettatori, ma anche gli attori della serie (in quanto esseri umani), ed è l’unico vero e fondamentale punto di congiunzione e intersezione tra il primo e il secondo livello di fruizione: altro che sottosopra!

Romanzi d’appendice

Le nuove serie portano alle estreme conseguenze quei romanzi d’appendice che non avrebbero mai voluto finire, sono il compimento dell’azzardo segreto del feuilleton: far sentire l’alito della morte.

La pulsione voyeuristica è sempre stata presente nell’occhio (e nella mente) dello spettatore, ma prima si soddisfaceva in forme più indirette. Lo star system hollywoodiano ha sempre mirato alla fidelizzazione dello spettatore rispetto agli attori in carne e ossa. Così nascevano i fan, ossessionati dalle gesta dei loro beniamini più che dalle singole pellicole.

Di film in film si poteva ottenere un blando effetto Stranger Things, per Marlon Brando o per Marylin Monroe, per Meryl Streep o Robert de Niro, e via dicendo. Esemplare la recente operazione fatta su Top Gun, dove vengono riprese le vicende del pilota Cruise/Maverick (il primo film era del 1986), e la scrittura filmica insiste moltissimo nel sottolineare il tempo che è andato, per il protagonista ma chiaramente e di rimando anche per lo spettatore.

È un sequel che a tutti gli affetti trae la sua forza dalla nostalgia che è in grado di suscitare nel pubblico, riproponendo scene identiche, in modo che il raffronto tra il prima e il dopo, tra il passato e il presente, sia automatico (per esempio il momento iconico di Cruise/Maverick che in sella a una moto gareggia con il decollo di un caccia bombardiere).

La vera novità sta però nella totale coincidenza tra personaggio e persona che solo la nuova serialità ha reso possibile.

L’esperienza è totalmente immersiva, non c’è mai uno stacco, un’ellissi lunga oltre trent’anni come in Top Gun.

Quando in Stranger Things assisto all’abbraccio tra gli amici che si ricongiungono dopo aver respinto l’ennesimo attacco di Vecna, mi commuovo perché attraverso di loro vedo me.

Vedo – avverto – il tempo che è trascorso. È trascorso per loro e quindi anche per me.

Ripenso alla prima stagione, quando questi adolescenti erano solo dei bambini, e l’emozione è così forte proprio perché mi sento coinvolto, non mi limito a guardare, sono io stesso parte delle serie, sono cambiato anch’io insieme a loro.

La scrittura sembra saperlo benissimo, evidenziando tutti i riti di passaggio che i ragazzini devono affrontare durante la crescita. Non a caso uno degli snodi fondamentali diventa il ballo scolastico di fine anno (ovviamente con plurimi rimandi a Carrie – lo sguardo di Satana).

Soap opera

Ma non funzionavano allo stesso modo le telenovela e le soap opera del passato? Direi piuttosto che funzionavano all’opposto: in quelle vecchie narrazioni seriali c’era l’idea che i protagonisti non dovessero mai invecchiare.

Si pensava che la longevità della produzione fosse garantita dalla immodificabilità dei personaggi, e si tentava una sorta di ibernazione delle caratteristiche principali (anche fisiche), che non dovevano mutare bensì restare identiche di puntata in puntata (è l’idea anche dello sceneggiato televisivo italiano, nonostante si sia passati poi al Giovane Montalbano, ma appunto c’è voluto un attore differente rispetto al vecchio Montalbano).

I personaggi di Quando si ama o Anche i ricchi piangono, o di Beautiful o Dallas, sono trattati come gli eroi dei fumetti, non devono invecchiare, devono fare di tutto per agire e muoversi in un eterno presente, più che sconvolgere il telespettatore lo devono incantare, dando un prodotto che si oppone alla realtà, la edulcora, la falsifica, ne costituisce un piacevole surrogato ipnotico.

L’unica esperienza minimamente paragonabile a quella dell’attuale Stranger Things riguarda le saghe cinematografiche, composte da più film riguardarti lo stesso nucleo di personaggi. Si ebbe lo stesso effetto con Harry Potter (alcuni sono ancora sotto shock per lo sviluppo, in tutti i sensi, di Hermione alias Emma Watson), ma anche con il ciclo di Rocky Balboa, dove l’emozione dello scorrere del tempo era un elemento enunciato direttamente in pellicola: si pensi a quella meravigliosa scena a bordo piscina in Rocky 3 dove Apollo Creed, ormai pensionato, ha un faccia a faccia molto duro con Rocky riguardo alla loro essenza/identità di pugili killer. E allora apprezziamo le avventure di Stranger Things, la sua rievocazione accurata di una parte dell’immaginario anni Ottanta fatta in egual misura da Guerra fredda & Dungeons & Dragons, paranoia atomica & personal computer, metallo pesante (Vecna è un omaggio gigantesco a Eddie The Head, protagonista di tutte le copertine degli Iron Maiden e dei disegni sui diari di milioni di ragazzini svogliati) & satanismo (Charles Manson, L’esorcista), il suo iper-citazionismo colto e divertito (in primis dei film horror statunitensi, dalla santa trinità Jason Voorhees di Venerdì 13, Michael Myers di Halloween e Freddy Krueger di Nightmare fino ai delitti seriali di Scream), ma senza dimenticarci che alla fine dell’estetica qui comincia un gioco molto più avvincente: le nostre vite.

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