Dario Fo buonanima il festival di Sanremo lo odiava. Nel 1969 venne in treno con Franca Rame e gli attori della Grande pantomima di bandiere e pupazzi a fare un Controfestival. Con le canzonette «Il padrone cerca di imporre dei falsi miti», stava scritto nel volantino firmato dal Pci di Imperia. A differenza di tanti (quasi tutti), non cambiò mai idea: «Mi fa un po' pena, è tutto finto, a cominciare dal pubblico ingessato in platea» commentava quarant'anni dopo. Nel cast quella volta c'erano Bonolis, Povia, Sal Da Vinci e altri bersagli facili, ma lui se la prendeva ancora con il “pubblico ingessato”.

Nell'anno della platea vuota dell'Ariston vale la pena ricordare che il pubblico di Sanremo è stato un animale unico, diverso da tutti gli altri, difficilmente sostituibile da figuranti come avrebbe voluto il pratico Amadeus.

Pasolini aveva riassunto con proverbiale rassegnazione su Il Tempo Illustrato già nel 1969: «Tutti gli italiani se potessero pagare (…) andrebbero ad assistere in carne e ossa allo spettacolo di Sanremo». Il biglietto costava 20.000 lire. Ma Pasolini aveva amato Celentano, che nel 1961 aveva iniziato 24mila baci voltando la schiena al pubblico del Casinò. E adorava Claudio Villa, colonna sonora di Ragazzi di Vita. Nel 1981, non invitato al festival, troppo imbarazzante per l'epoca nuova che si apriva, il cantante romano si esibì solitario a venti chilometri da Sanremo portandosi dietro il “suo” pubblico: 1.800 persone, più o meno la capienza dell'Ariston.

Nel 1951 prima edizione nel salone delle feste del casinò, Nilla Pizzi canta Grazie dei fior diretta dal maestro Angelini e il pubblico ha ancora di fronte i tavolini della cena, stile cafè-chantant.

Nella foto: Ecco come si presentava il Salone delle Feste del Casinò Municipale di San Remo durante la prima serata del Festival mentre canta NILLA PIZZI © Silvio Durante / LaPresse Archivio Storico

Nel 1955 con l'arrivo della tv i tavolini spariscono. Restano: il casinò, il profumo del gioco d'azzardo, le vetrate liberty, lo smoking, gli abiti da sera. Un'idea di lusso pacchiano messo in satira dai cummenda delle commedie italiane, qualcosa che il pubblico di Sanremo si porterà sempre dietro anche dopo l'approdo al cine-teatro Ariston.

Qui, dopo gli anni ruggenti e bulgari 1977-’79, si ricostruiscono le prime file degli alti funzionari Rai, dei notabili locali, di sconosciuti padroncini e avventuriere nelle file immediatamente successive. Anche i camorristi – i pentiti hanno raccontato che partecipare a Sanremo in doppiopetto gangsteristico era il massimo – seduti accanto a Mario Merola e ai gruppi di claque napoletane pronte a spellarsi le mani a pagamento per Totò Cutugno e Gigi D'Alessio.

Grillo all’Ariston

È questo il pubblico che fa da spalla a Beppe Grillo nei suoi leggendari stand-up anni Ottanta. Nel 1985 il comico entra in scena e se la prende con Pippo Baudo perché l'applauso non è abbastanza forte. Esce, rientra, protesta ancora: «No, gli applausi registrati non li voglio». Saluta in platea i sindaci “gemellati” e a quello di Las Vegas dedica una battuta: «Se gli tiri un orecchio gli girano gli occhi come una slot machine». Ritorna all'Ariston nel 1988 dopo l'esilio per aver dato dei ladri ai socialisti, e ricomincia da dove aveva finito: «Ma guardate che gente... Quella signora lì è entrata che aveva 28 anni ora ne dimostra 86... E quella con la pelliccia? Ci son 50 gradi all'ombra, ha la pelliccia di zanzara, di mosca, di cos'è?»

Piccole scaltrezze di repertorio. Il pubblico è fondamentale per Grillo, secondo la vecchia scuola dello stand up americano e della crudeltà genovese (alla Paolo Villaggio). Uno dei suoi tormentoni «Feeeermi! Non applaudite» (con l'e aperta, ligure) senza il pubblico in presenza non può funzionare. «Cotugno, Cutugno... come si chiama?», «Cutugno», grida uno dal pubblico. «Me lo inquadrate un fan di Cotugno per favore? Avete tutti quella pettinatura come le foto del barbiere?». È il 1989.

Il monologo su Jovanotti “scorreggina”, Al Bano inquinatore del mondo, il clan degli avellinesi (il presidente del consiglio De Mita e il direttore della Rai Agnes), Aragozzini, Barilla, Domenica in, finisce con un appello al pubblico: «Ora vi voglio solidali. Io mi prendo una denuncia. Se siete con me, vi alzate in piedi. Inquadrate! È ora di finirla che io vi faccio ridere e a me mi fanno un culo così».

È sempre interessante ricordare Grillo col senno di poi. Il grido del monologo 1989 fu: «Dove andremo a finire! Siamo davanti all'Europa!». E il ritorno grillino del 2014, presenta Fabio Fazio, con la minaccia di blitz e sorprese, la Rai denunciata come «responsabile del disastro politico ed economico di questo paese». Alla fine Grillo compra un biglietto e si siede tra il pubblico, guardato a vista dal servizio d'ordine. «Starò tranquillo, non sono Cavallo Pazzo», dichiara.

Le contestazioni

Cavallo Pazzo, Mario Appignani, ex indiano metropolitano dalla vita complicata, è il fantasma numero uno del pubblico sanremese, quasi una serpe covata in seno alle pellicce e ai megadirettori, complici la diretta e la confusione del piccolo teatro Ariston. Il disturbatore. Annunciò a Pippo Baudo poco prima dell'edizione 1992 che sarebbe salito sul palco. Arrivò come un Houdini. Mentre Baudo salutava il pubblico entrò e disse: «Il festival è truccato vince Fausto Leali». Lo portarono via in cinque. Leali arrivò nono.

Fu nello stesso anno della contestazione di Grillo che all'inizio del festival due operai, «lavoratori della Terra dei fuochi senza stipendio da 16 mesi», salirono su una impalcatura in galleria e minacciarono di buttarsi di sotto. Fabio Fazio li convinse a scendere. Ma niente rispetto allo spettacolare «Pippo sono disperato» di Pino Pagano, il Sordi-sul-Colosseo dell'anno 1995, abbracciato dal presentatore che era salito fin oltre la balaustra della galleria.

Ancora del presentatore siciliano il momento più civile e perfino commovente di questo genere di interruzioni: la delegazione di operai della Finsider in lotta per difendere il posto di lavoro. Salirono sul palco del festival 1984: «Noi sappiamo di creare un po' di disturbo...» dice il sindacalista, con una dignità deamicisiana, «ma la nostra lotta è la lotta del paese». Tutto in piedi il pubblico.

Non andò così bene quando Maurizio Costanzo invitò sul palco del Sanremo 2010 tre operai di Termini Imerese licenziati, ascoltò i loro racconti e poi andò in platea a chiedere un parere a Pierluigi Bersani da poco segretario del pd. «Basta comizi», disse qualcuno accanto. Qualche fischio si alzò. In compenso la sala applaudì il ministro dell'Industria Scajola, già deputato locale di Imperia (si dimise tre mesi dopo per l'affaire della casa di fronte al Colosseo).

Tempi duri. Nel 2013 il solo accenno di un'imitazione di Berlusconi costò a Maurizio Crozza una contestazione dalla platea che paralizzò il comico, incapace di rispondere a tono. Il Corriere scovò uno dei responsabili: Lillo Munafò, 65 anni, vicepresidente del Lecce calcio, presidente degli agenti italiani delle assicurazioni, ex consigliere comunale del Polo delle Libertà a Legnano, ex socialista. Dieci anni prima Giuliano Ferrara aveva lanciato dalle colonne del Foglio la campagna “BoicottareBenigni”, minacciando di andare in sala a tirare uova e ortaggi addosso al comico toscano schierato con l'Ulivo nelle precedenti elezioni. Poi restò a casa. Venti milioni di spettatori seguirono il monologo del comico toscano, quello sul “pisello di Baudo”.

Certo ai tempi della concorrenza Rai-Fininvest, un'era geologica fa, Sanremo era la spina nel fianco di Berlusconi. Provò a cannibalizzarlo con Mike Bongiorno. Poi scatenò il Gabibbo. Infine due anni fa concluse: «Le canzoni di Sanremo? Tutte boiate. Molto meglio quelle che scrivo io».

Complicità

Prima delle ultime elezioni del marzo 2018 Fiorello chiese al pubblico in sala per chi avrebbe votato, per alzata di mano, mentre le telecamere continuavano a inquadrarlo. I risultati si sarebbero visti di lì a poco. Rimase la battuta su Di Maio, il «toyboy di Orietta Berti». Salvini venne in platea il quarto giorno con la fidanzata conduttrice tv Elisa Isoardi. Twittò. Forse ebbe la sua inquadratura. Nel 2020 twittò: «Hanno già deciso il vincitore. È di sinistra». Vinse Diodato. Buonissimo. 

Ha mai inciso davvero il pubblico in sala sullo svolgimento del festival? Sì e no. Da anni i fischi in occasione della lettura della classifica sono una costante. Smentiscono la sanremesità della canzonetta vincitrice, e insieme la confermano. Molte standing ovation, mutuate dai grandi show americani: solo nell'edizione dell'anno scorso ne hanno avuta una Rita Pavone, Beppe Vessicchio, Tiziano Ferro, Franca Valeri (alla memoria), Vincenzo Mollica. Una delle prime fu per Whitney Houston nel 1987. Lei accettò di cantare due volte All at once in un clima da Las Vegas che da allora sarebbe stato sempre meno raro.

Ecco, l'era dei social ci consegna una complicità tra palco, platea e pubblico a casa che non c'era mai stata. O forse, sentirsi più intelligenti dei cravattoni seduti all'Ariston era un vezzo. Nel 1968 Flaiano raccontava di aver visto Sanremo a casa di amici: «Intendevano vedere la trasmissione per ragioni di studio, essendo psicologi e interessati ai fenomeni della cultura di massa. Alla fine mi sono accorto che a loro quella roba piaceva».

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