Cosa è stato Eugenio Cefis nella sua vita terrena? Un prefiguratore, come lo ha dipinto su questo giornale Paolo Morando il 14 luglio scorso? Oppure un uomo pericoloso per la democrazia e per il paese? Nell’incompiuto romanzo Petrolio, Pier Paolo Pasolini vede in lui un “eroe” diabolico, «come gli eroi di Balzac e Dostoevskij: conoscono cioè la grandezza sia dell’integrazione che del delitto». Petrolio contiene anche ampi cenni all’uccisione di Enrico Mattei, il predecessore di Cefis al vertice dell’Eni, e Pasolini ne indica il possibile mandante in Troya, ovvero Cefis. Ma è finzione romanzesca?

In quegli anni quando ancora la verità ufficiale sulla caduta dell’aereo con a bordo Mattei parla di incidente tecnico, Pasolini afferma in Petrolio che il presidente dell’Eni era stato ucciso per far posto «fisicamente» a Cefis e a Fanfani, come scrive sopra a un diagramma riprodotto alla pagina 117 del romanzo. Dunque un intrigo per buona parte interno all’Italia e ai suoi blocchi di potere. Eugenio Cefis e Amintore Fanfani coinvolti nell’eliminazione di Mattei? L’aveva già ipotizzato il giornalista Mauro De Mauro nel 1970 e dopo di lui i magistrati che hanno indagato sulle morti di Mattei e dello stesso De Mauro. E questa non è finzione romanzesca. Il 16 settembre 1970 il giornalista viene ucciso, e il motivo sta in quello che potrebbe aver scoperto sulla morte di Mattei.

Il Negro e il Roscio

In anni recenti si è parecchio discusso di alcuni capitoli mancanti in Petrolio, e in particolare si è battibeccato sulla pagina bianca di Lampi sull’Eni. Pasolini in Petrolio lo ha dato per scritto («Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili» di Cefis quando era il partigiano Alberto «ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato Lampi sull’Eni, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria»). Ma c’è chi, in punta di filologia, lo ritiene nulla più di un promemoria su cui l’autore avrebbe voluto tornare in seguito.

Ma a ben vedere, Lampi sull’Eni non è l’unico nudo titolo in Petrolio: all’Appunto 52b ecco un’altra pagina vuota che fa riflettere, quella titolata Il Negro e il Roscio: sono i soprannomi di Franco Giuseppucci e di Giovanni Girlando, all’epoca ragazzi, diventati in seguito figure apicali della banda criminale romana della Magliana. Per carità, Negro e Roscio sono soprannomi di cui si è sempre fatto largo uso, ma quel loro accostamento in orbita romana è quanto meno singolare. Altro indizio, Giuseppucci, Girlando e con loro Renatino De Pedis (altra figura apicale della Magliana) si servivano dallo stesso barbiere di Pasolini, in piazza Trilussa. E si ricordi che lo scrittore era in contatto con il sottobosco criminale delle borgate (con l’autista dei Marsigliesi, Antonio Pinna, con il pluriomicida Giorgio Capece e forse anche con Giuseppucci e Girlando) per trarre notizie sul linguaggio della mala e altre informazioni riservate “dal basso”.

Quel discorso modenese

Nel suo intervento Morando si dilunga sul discorso tenuto dall’allora presidente di Montedison il 23 febbraio 1972 di fronte ai cadetti dell’accademia militare di Modena (quello che Pasolini ritiene «un grande discorso ideologico») per dire che, in realtà, l’ex partigiano Cefis qui inneggia ai valori costituzionali «che voi», cari cadetti «vi siete impegnati a difendere». Questa di Morando a me pare una lettura alquanto riduttiva, e mi spiego.

In anni di crescita elettorale del Pci e delle sinistre, in barba a quel retorico appello alla Carta costituzionale, il massone Cefis esorta i militari a studiare sociologia e a occuparsi di politica: «non disdegnate le scienze politiche, non trascurate lo studio dei fenomeni sociali, approfonditeli con attenzione e meditate sulle loro linee evolutive. In poche parole, occupatevi di politica». Queste parole di Cefis sembrano avvicinabili a quelle che si leggono in un altro testo: «I fratelli membri del comitato esecutivo massonico debbono perciò studiare, analizzare il potere al fine di conquistarlo, esercitarlo, conservarlo, aumentarlo e renderlo sempre più saldo». Si trovano nel documento costitutivo di una superloggia sovranazionale segreta – parallela alla P2 e aperta ai non massoni – fondata a Montecarlo il primo gennaio 1977.

Ma attenzione, a scrivere l’intervento modenese di Cefis – che Pasolini voleva includere in Petrolio – è l’addetto alle trasformazioni tecnologiche, economiche e sociali di Montedison, Giuseppe Lanzavecchia, sviluppando le indicazioni avute dal suo capo Umberto Colombo e da Gianfranco Miglio. Infatti, alcuni paragrafi portano dritto dritto alle teorie efficientiste e reazionarie di Miglio sul declino degli stati nazionali, ormai ridotti, come li definisce Cefis, a scatole vuote senza potere. Insomma, l’intervento modenese di Cefis segnala come ineludibile l’ulteriore balzo in avanti di quella trasformazione, tecnocratica e omologante, oggetto della critica di Pier Paolo Pasolini. Una trasformazione che non coinvolge i soli settori avanzati, ma tutto, proprio tutto, dal modo di consumare a quello di vivere e pensare.

Bombe e stragi

Come si evolverà il rapporto tra queste società che operano su basi internazionali e gli stati sovrani, si domanda Cefis. A fronte della «pressione politica che le multinazionali possono esercitare», gli stati nazionali vengono derubricati a scatole vuote, con tanti saluti all’idea di patria, liquidata tra i ferrivecchi; e pronosticando la fine del potere politico, Cefis, favorevole alla repubblica presidenziale, rivolge ai militari l’invito a occuparne il vuoto all’ombra delle grandi aziende (eccola qui la “dittatura tecnocratica”: la politica come variabile del profitto): «I maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel governo o nel parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese e nei sindacati, anch’essi avviati a un coordinamento internazionale. (...) Se questo è il tipo di società verso cui ci stiamo avviando è facile prevedere che in essa il sentimento di appartenenza del cittadino allo stato è destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l’impresa multinazionale in cui si lavora. (...) La difesa del proprio paese si identifica sempre meno con la difesa del territorio ed è probabile che arriveremo a una modifica del concetto stesso di patria, che probabilmente i vostri figli vivranno e sentiranno in modo diverso da voi. (...) Non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli stati elaborino una risposta adeguata sul piano politico ai problemi che esse pongono». Davvero si tratta di una semplice denuncia di un rischio, come pare a Morando? O invece, come lo valutò Pasolini, di un discorso rivelatore della mutazione del potere?

Pare a noi innegabile la simmetria del Cefis-pensiero con quanto leggeremo qualche anno dopo nel Piano di rinascita democratica della P2. Al capitolo programmi (punto 1) si adombra infatti «lo spostamento dei centri di potere reale dal parlamento ai sindacati e dal governo ai padronati multinazionali con i correlativi strumenti di azione finanziaria». Nelle sue pieghe, questo discorso sembra annunciare, più che denunciare, l’avvento di un nuovo modello di capitalismo totalizzante estraneo al fordismo e alla dialettica della conflittualità di classe. Lo stato indebolito smetterebbe di assolvere alla funzione di mediatore sociale e l’egemonia passerebbe completamente in mano alle grandi concentrazioni finanziario-affaristiche.

Ben di peggio, nella nuova era dei mercati globali, della robotizzazione, della ricchezza astratta e della procurata deframmentazione sociale, al crescere della produttività e degli investimenti in nuove tecnologie non farà riscontro l’aumento dell’occupazione che al contrario calerà, diventando flessibile e appunto “fedele”: quel senso di appartenenza (o di identificazione, come lo chiama Cefis) all’universo della fabbrica, quel comune sentire tra lavoratori e impresa «che non ammette fratture». Altro che funzione sociale dell’impresa! Come oggi sappiamo, il mercato del lavoro è andato via via frantumandosi nelle forme flessibili e subordinate agli umori del mercato che ormai ben conosciamo, senza più garanzie né ascensore sociale. In questa transizione da una forma di capitalismo all’altra, l’esercito verrebbe ad assolvere a funzioni di ordine pubblico.

Cefis conclude esortando gli «ufficiali di domani» a occuparsi in modo sistematico di «fenomeni sociali» e di politica. E aggiunge che le future “guerre permanenti” i militari le dovranno combattere non tanto contro altri eserciti quanto sul fronte interno, dentro la società. È ciò che sta avvenendo nel 1972: prove generali di stato d’assedio, con i corsi militari di ardimento e le “operazioni setaccio”, guerra permanente anticomunista, schedature elettroniche di massa, bombe e stragi.


Giovanni Giovannetti ha scritto Malastoria. L'Italia ai tempi di Cefis e Pasolini (Effigie, 2020) e, con Carla Benedetti, Frocio e basta. Pasolini, Cefis, Petrolio (Effigie, 2016).

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