Capita non di rado che la satira superi o quantomeno anticipi la realtà. La trasmissione radiofonica 610 proponeva, tra i suoi spot surreali, quello dell’immaginario baccalà Pompermaier, «il baccalà di noi alpin», salutato con entusiasmo da un coro di montanari. Ebbene, un piatto simile è ora realtà, e neppure isolata.

Molti rifugi hanno investito sul mangiare bene, persino di lusso, ingaggiando chef rinomati e proponendo ricette che vanno molto oltre cacciagione, erbe d’alta quota e pesce di lago o di torrente. Ingredienti scelti, trasporto rapido e sicuro: il prezzo non può essere dei più contenuti, eppure alla clientela piace godersi l’estate al fresco, assaporando il mare mentre si contemplano le vette.

Di fronte alla realizzazione del baccalà Pompermaier, allo storico non rimane che formulare l’abituale domanda: come siamo arrivati fino qui?

Giorni di magro

Riportiamo indietro la clessidra del tempo all’epoca in cui le regole religiose erano severe e quelle dell’astinenza cristiana pretendevano che non si mangiasse carne nei giorni di magro, sostituita soprattutto dal pesce.

È conoscenza in qualche misura comune che il cristianesimo, quello cattolico in particolare, detti delle prescrizioni della tavola: in determinati giorni dell’anno si dovrebbero evitare alcuni cibi (astinenza dalle carni prima di tutto) e consumare un unico pasto al dì, spuntini esclusi (digiuno).

Oggi sono norme quasi dimenticate, ma se andiamo indietro fino intorno all’anno Mille scopriamo un mondo alimentare completamente differente dal nostro.

Nei conventi e per i fedeli più devoti, quali si pretendeva fossero tutti, i giorni canonici di digiuno e astinenza erano il mercoledì, giorno in cui Giuda tradì Gesù, e il venerdì, memoria della Passione di Cristo. Due volte la settimana si mangiava perciò poco e leggero, un pasto principale e qualche innocuo spuntino, a base soprattutto di legumi cotti con olio, verdura fresca, pesce e vino.

Si aggiungevano al calendario dello stecchetto i quattro periodi di magro: quaresima, i cosiddetti digiuni degli apostoli (dalla Pentecoste al 28 giugno) e della Madonna (prima metà di agosto), avvento (dal 15 novembre per quaranta giorni). In tali occasioni la cinghia veniva stretta di più rispetto ai mercoledì e ai venerdì del tempo ordinario, poiché si facevano scomparire quasi integralmente pesce, olio e vino, sostituito quest’ultimo con acqua aromatizzata al cumino.

Il pesce si preferiva alla carne perché ritenuto meno nutriente e incapace di accendere le passioni del corpo, secondo un ragionamento volto a promuovere un connubio tra cibo e sesso vecchio come il mondo.

Salato e dolce

Qual era la soluzione per chi il pesce non lo aveva a portata di mano? Dobbiamo ragionare sulle tecniche di conservazione, che hanno radici lontane e senza le quali sarebbe impensabile oggi ordinare un’orata al cartoccio in alta montagna.

Essiccato al sole, messo sott’olio o sotto sale, trasportato dalle città di mare a quelle dell’interno, il pesce era un alimento caro, rischioso e neanche troppo buono.

Caro perché ai costi di conservazione si aggiungevano quelli di trasporto, rischioso perché nel preservarlo non sempre tutto andava bene, neanche troppo buono perché la differenza di gusto tra il fresco e il conservato non era affatto inconsistente.

Differenze importanti si registrano pure nelle abitudini delle città di mare, dove i più poveri consumavano in abbondanza il cosiddetto pesce azzurro (acciughe, sardine, tonni), mentre nobili e abbienti preferivano la carne o, se proprio dovevano fare penitenza, si buttavano sul pesce pregiato, quello che non vive in banchi ed è dunque più difficile da pescare, sui molluschi e sui crostacei.

Diverso è il discorso per chi aveva a disposizione frutti di fiume e di lago. Tenendo sempre come punto di riferimento cronologico l’anno Mille, possiamo osservare come le regole di diversi ordini religiosi scegliessero quale elemento imprescindibile per la selezione del luogo dove erigere un monastero la vicinanza di corsi d’acqua.

Fu quello il periodo in cui pesci e loro simili acquisirono un nuovo status nelle regole del cristiano: proibiti almeno fino ai secoli IX e X accanto alle carni suina, bovina ed equina nei periodi di magro, si trasformarono in un simbolo della dieta monastica per arrivare poi a costituire gli ingredienti forti di preparazioni deliziose, immancabili nelle mense quaresimali di re, signori e alti prelati. Magri ma buoni, e ricercati.

Nuove regole

Per buona parte d’Europa le cose cambiarono ancora con la Riforma del XVI secolo. Lutero lo predicò e lo scrisse: non aveva alcun senso seguire le regole cattoliche sul digiuno, il loro calendario, le liste di cibi ammessi e proibiti. Invitava a dimostrare apertamente queste convinzioni con gesti esemplari come mangiare la carne nei giorni proibiti, meglio ancora se sotto gli occhi di preti e teologi cattolici.

In fondo, chiariva Lutero, erano proprio loro i colpevoli della diffusione di un credo falso e ingannevole, fatto per abbindolare i fedeli convincendoli che mangiare bistecche in quaresima fosse più grave di una menzogna detta in tribunale. O peggio, che ci si potesse comprare il diritto di scegliere liberamente i piatti in quaresima pagando costose indulgenze.

Le argomentazioni del riformatore tedesco erano piuttosto solide e fondate, tanto da contribuire a levare di mezzo molte restrizioni alimentari in buona parte del Vecchio continente.

Parecchie regioni protestanti tornarono ai propri menù tradizionali, basati fortemente sul consumo di carne, come accadeva per esempio tra i popoli germanici e slavi – una preferenza culturale, non solo economica.

Nell’Europa protestante nel XVI e XVII secolo si moltiplicarono così i trattati sul libero consumo di carne. Non sorprende che quei tempi siano stati testimoni di un brusco calo della produzione ittica nei paesi in cui il consumo era stato artificialmente incrementato dagli obblighi della Quaresima; esso rimase alto solo in luoghi affacciati sul mare, come l’Olanda, la Scozia, l’Inghilterra e la Norvegia, dove il pesce costituiva necessariamente una parte fondamentale della dieta quotidiana.

Di contro, fedeli cattolici presero a produrre trattati sulla Quaresima che elencavano in modo sempre più dettagliato i cibi permessi o proibiti. Pure i ricettari si organizzarono secondo la distinzione dei menù per i diversi tempi dell’anno. In una parte si riportavano le ricette dei giorni di astinenza e dunque si prevedevano pesce, frutti di mare, verdure; in un’altra si elencavano invece i piatti carnivori.

La tradizione di tenere conto delle regole alimentari cattoliche ebbe lunga durata e per secoli la letteratura in tema ha rispettato l’uso di fornire soluzioni specifiche per i periodi di magro. Anche il più celebre scrittore-gastronomo della storia della letteratura italiana, Pellegrino Artusi (1820-1911), nel suo indice avrebbe tenuto conto di tale distinzione.

Alla sua epoca, la forza delle norme cattoliche stava cominciando però a segnare il passo, magari non Italia, ma in altri paesi cattolici sì. Per esempio, la più volte denunciata irrazionalità delle mense quaresimali, Lutero non fu né il primo né il solo, fu percepita diffusamente nella Francia del secolo dei Lumi, il XVIII. Questo contribuì al declino delle pratiche del digiuno e dell’astinenza in un paese che in epoche precedenti era stato tutto sommato un simbolo di severa moralità.

Oggi il pesce non è più cibo da quaresima, è consigliato da molti dietologi e nutrizionisti per le sue proprietà e qualità, si divide tra ricette popolari e poco costose da un lato, prelibatezza d’alta e ricercata cucina dall’altro.

Lascia spazio ad ampi margini di creatività, agevolata nell’Italia dai più di 8mila chilometri di costa dalla qualità della materia prima. Per cucinarne di appetitoso si possono usare ricette della tradizione ma anche una buona dose di fantasia, con esecuzioni semplici quali la lessatura o la cottura al forno. Succede anche a 2mila metri sopra il livello del mare.

© Riproduzione riservata