Ci voleva lo sguardo libero e curioso di un’autrice poliedrica come Costanza Quatriglio per trasformare il documentario Note al Centro in qualcosa di più di un semplice omaggio istituzionale al mitico Centro Sperimentale di Cinematografia.

La scuola, attualmente presieduta da Gabriella Buontempo, produce, con alti e bassi, dagli anni Trenta generazioni di talenti del cinema italiano, tra cui la stessa Quatriglio: una regista pluripremiata di film ibridi tra finzione e documentario, inaugurati dal suo bellissimo film d’esordio L’Isola, in concorso a Cannes 2003 nella sezione Quinzaine des réalisateurs.

Dopo il suo ultimo film, Il cassetto segreto, un viaggio intimo nella memoria del padre, il giornalista Giuseppe Quatriglio, la regista si immerge negli archivi del Centro per affrontare ancora una volta la memoria collettiva e personale. Il film verrà presentato il 22 ottobre alla XX Festa del Cinema di Roma nella sezione Storia del cinema – documentari.

Da dove nasce questa sua passione, o forse ossessione, per la memoria?

Più che passione o ossessione, direi che lavorare con gli archivi o su temi che riguardano la memoria per me è sempre un rilancio verso il futuro. Le immagini d’archivio parlano molto del presente, del nostro immaginario, di chi siamo oggi e di ciò che siamo diventati: si tratta di un materiale che si è stratificato nella nostra coscienza, sia a livello individuale che collettivo.

Immagino sia stato complicato scegliere e rielaborare, in un film di 50 minuti, 90 anni di materiali d’archivio.

Guardando i bellissimi tesori d’archivio che la Cineteca Nazionale ci ha messo a disposizione, mi sono resa conto che dagli anni Trenta in poi la scuola si è autorappresentata attraverso la voce dei grandi maestri della storia del cinema. Tra questi, Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Marcello Mastroianni, Sergio Leone e Monica Vitti. C’è anche una chicca meravigliosa: la visita di Charlie Chaplin alla scuola negli anni Cinquanta. Materiale bellissimo.

Ma a un certo punto ho sentito il bisogno di decentrare i racconti di gloria. Volevo dare spazio e voce a una nuova generazione di allievi. Giovani che cercano di raccontare il proprio tempo. Così, ho inserito nel montaggio anche dei frammenti di un film collettivo che abbiamo realizzato durante la pandemia al Centro Sperimentale di Palermo, che è la sede del cinema documentario che ho l’onere e l’onore di dirigere.

Mi è sembrata una testimonianza importante che guarda al futuro, perché in quel caso i ragazzi si sono confrontati per la prima volta non solo con l’idea di fare un film a distanza con l’uso di nuove tecnologie, ma anche con la costruzione dell’immaginario pubblico della pandemia.

Gli studenti del Centro Sperimentale di Palermo sono una linfa vitale per lei?

Sì, ho sposato questo progetto con grande gioia e lo sforzo di rimettere in sesto la scuola ne è valso la pena, perché era importante che a Palermo ci fosse una scuola di cinema documentario. È straordinario vedere degli studenti molto giovani venire da ogni parte del mondo per misurarsi con un territorio così ricco, stratificato, ambiguo e pieno di contraddizioni.

Mi colpisce rivedere in loro quello stupore e spaesamento tipici di chi vuole iniziare a “mangiarsi il mondo” con il cinema. La differenza che sento con loro è che sono inevitabilmente meno abituati a una relazione diretta con l’altro. Io sono il frutto del corpo a corpo, dell’istinto puro e quasi animale di questo mestiere, mentre loro sono figli di una mediazione con l’altro attraverso gli schermi e le applicazioni dei loro smartphone.

Una cosa che colpisce molto è la rappresentazione delle donne in questi archivi: corpi desiderabili e visi perfetti. Più che attrici, sono figurine sorridenti e compiacenti, scelte per la loro fotogenia. Non pensa che il cinema italiano abbia sempre avuto un problema con i ruoli femminili?

Posso dire che si tratta di una storia molto antica e che ancora oggi le attrici con una bellezza non conforme faticano a emergere. Ricordo che, quando ho iniziato a fare cinema, le giovani attrici erano spinte a diventare tutte uguali. Una persona molto importante del cinema italiano mi disse che, se volevo fare un film di successo, le attrici dovevano sembrare disponibili e apparire come delle ragazze dei Parioli... Non era una provocazione, per lui era una certezza.

Il cinema documentario l’ha aiutata a evitare gli stereotipi e a rimanere con i piedi ancorati alla realtà?

Il percorso che ho fatto mi ha permesso di immaginare il cinema come un continuo sconfinamento tra i generi. Ho sempre fatto documentari, ma anche film di finzione. Sviluppo le mie storie a partire da una verità e poi le trasfiguro completamente, per cui mi sento una persona profondamente libera nell’utilizzo del linguaggio cinematografico. Ogni film che faccio è una proposta di salvazione. È un’azione per salvarsi in qualche modo dalla pigrizia.

Da regista donna, ha mai percepito una forma di sessismo nei suoi confronti?

Ho incontrato tantissime difficoltà in quanto donna e all’inizio non riuscivo neanche a capirle, perché la violenza è subdola. Si manifesta spesso attraverso lo scherno, la delegittimazione e il tenerti da parte, e spesso si trasforma anche in bullismo. Se poi sei una regista di bell’aspetto, vieni vista come un animale con le antenne blu. Per fortuna sono una persona solida e ho sempre creduto in questo mestiere.

Però, se ripenso a me stessa a vent’anni, sui primi set, mi fasciavo il seno per evitare qualsiasi equivoco sulla mia disponibilità. Era una forma di autodifesa, ma quando vuoi fare questo mestiere non puoi boicottarti da sola, perché ti privi di occasioni ed è anche deleterio dal punto di vista creativo. Da donna, la strada è stata lunga: mi è capitato anche di sentirmi dire da produttori che hanno lanciato uomini alla soglia dei 60 anni che, a 30 anni, ero troppo vecchia per fare un film.

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