Un festival unico nel suo genere: autoconvocato e autoprodotto, dove chi partecipa condivide e collabora che da 20 anni si svolge al centro sociale Forte Prenestino. «Lavoriamo sull’autoproduzione che nasce condividendo luoghi, ma soprattutto saperi». Intervista a Valerio Bindi
«Possiamo combattere per i diritti dei nostri corpi, ma gli stessi corpi per i quali combattiamo non sono quasi mai solo nostri». Crack, il festival dedicato ai fumetti e all’arte stampata che invade il centro sociale Forte Prenestino di Roma, compie 20 anni (19-20-21-22 giugno) e usa le parole di Judith Butler per lanciare la sua edizione dal titolo “Carne”. Terza parte della trilogia aperta con “Cannibale – Do Eat Yourself!” e “Animale”. Crack è un festival unico nel suo genere: internazionale, illegale, autoprodotto, senza inviti, dove chi partecipa condivide e collabora. Qui sono passati alcuni degli autori più interessanti. Da Ratigher alla nostra Michela Rossi Sonno, da Seth Tobocman, ad Aleksandar Zograf, da Marco Corona a Tuono Pettinato e Rocco Lombardi, dallo street artist Blu a Mp5. «Crack poteva nascere solo al Forte ed esisterà finché ci sarà il Forte». A parlare è Valerio Bindi, critico d’arte, fumettista, curatore editoriale, membro del collettivo Sciatto Produzie, tra gli organizzatori del festival dalla prima edizione.
Come è nato Crack?
Era appena terminata l’esperienza dell’Happening International Underground - creato da Marco Teatro. Nel 2003, con il Forte Prenestino organizziamo una piccola sperimentazione, Celle Animate, figlia di iniziative simili realizzate insieme alla rivista seminale Torazine. Il movimento veniva dal G8 di Genova e ne era uscito traumatizzato, frammentato, disperso. Di tutto il fervore che aveva caratterizzato i ‘90, era rimasto solo il silenzio. E noi sentivamo il bisogno di squarciarlo. Per questo abbiamo scelto “Crack”, una parola onomatopeica. È il rumore di un ramo che si spezza che Hugo Pratt nei suoi fumetti ha trasformato in quello di uno sparo nel deserto che abbiamo fatto nostro.
Il festival ha avuto da subito una vocazione internazionale.
Si è affermato subito in Europa, non ce n’era uno simile, forse non ce n’è tutt’ora. Sicuro non ci sono posti così suggestivi, così incredibilmente accoglienti come lo è il Forte, capace di ospitare un grande numero di persone. Gli artisti che arrivano al Crack mangiano, dormono al Forte, vivono nella sua interezza il centro sociale.
Parla di Crack come di un’elaborazione collettiva, un festival autoconvocato. Che significa?
È nato dal sogno di avere un festival senza inviti, dove chi esponeva non fosse messo nel margine delle self aree che si trovano in tutte le fiere di fumetti. Autoconvocazione in quegli anni voleva dire creare una rete tra gli autori. Era una rete concreta, analogica, fatta di telefonate, incontri, appuntamenti, mailing list e forum su cui coordinarsi. Poi, poco a poco, è cambiato: adesso si lancia una call e si vede quel che succede. Nei primi anni di vita era nata una rete di festival affini che, poi, anche a causa del Covid, hanno perso vitalità. Ne sono nati di nuovi, ma più basati sul self publishing. Noi lavoriamo sull’autoproduzione che nasce condividendo luoghi e soprattutto saperi. Poi, a volte, anche l’autoproduzione entra nel mercato.
Ad esempio?
È successo nel 2016 con La rabbia pubblicata da Einaudi, un’antologia che faceva il punto sugli artisti italiani più interessanti passati per Crack fino a quel momento. C’erano Zerocalcare, Ratigher, che è poi diventato direttore artistico di Coconino, Michela Rossi Sonno, Hurricane (autore della cover di Finzioni di giugno ndr). Così come c’erano Bambi Kramer che ha appena pubblicato in America, trasformando una ricerca di sociologia urbana su Detroit in un libro, o come Vincenzo Filosa che ha poi iniziato a lavorare con Canicola.
Che valore ha per voi l’autoproduzione?
Ho vissuto una delle esperienze più assurde e interessanti di autoproduzione nate tra il 1990 e il 2010 e gira intorno a Fortopìa. Un libro nato dentro al Forte per i suoi 30 anni di occupazione, 400 pagine di colori e documentazioni, in cui sono stati segnalati oltre 40 festival fatti dal centro sociale realizzate da una redazione collettiva. Lo ha pubblicato Fortepressa, la nostra casa editrice “fantasma”: non ha distribuzione, non ha prezzo di copertina per i libri che pubblica. Abbiamo esaurito 1500 copie in 5 ore. Subito ristampato, ne abbiamo vendute altre 2mila copie durante Crack. L’autoproduzione funziona se hai uno spazio di riferimento da cui puoi modificare il reale. Poi c’è il rapporto tra le persone che questo spazio lo occupano e che decidono di fare una cosa insieme abbandonando il proprio narcisismo, in favore del collettivo. Il mercato, invece, tende a metterti in una gabbietta come si fa con i criceti.
I primi anni parlava di Crack come di «caos autorganizzato»: chiunque rispondeva alla call partecipava. Ora c’è una selezione degli autori, cosa è cambiato?
A un certo punto neanche un posto enorme come il Forte riusciva più a contenere tutti gli autori. Siamo arrivati ad avere 1200 ospiti a fronte degli 80 della prima edizione: non c’era più spazio, il pubblico non si accorgeva neanche che i sotterranei erano pieni di artisti. E noi volevamo garantire visibilità a tutti. Così ci siamo imposti il limite di 400 artisti. Quando esce la call per il festival dichiariamo il tema che diventa fondativo anche per la scelta dei partecipanti. La cosa positiva è che ora arrivano proposte molto centrate, di livello più alto. Ed è bellissimo perché Crack ha anche un pubblico molto esigente. L’aspetto negativo è che così si possono scoraggiare gli esordienti.
Com'è cambiato il linguaggio degli artisti che partecipano?
Crack è un laboratorio permanente in cui gli autori si confrontano, spesso il nuovo fumetto è nato qua. Il fumetto si basa su alcune caratteristiche. L’autore immagina dei movimenti e li trasforma sulla carta. Nel digitale il fumetto esiste per questioni economiche, ma non risveglia questi processi. Per noi il fumetto non è solo quello con la struttura classica, ma deriva da questo contatto con la carta. Così Crack è diventato subito anche festival della carta stampata, o meglio, dove il fumetto canonico era solo una delle possibili estensioni. Rendendo il panorama molto più complesso. Ora ci sono artisti che immaginano fumetti capaci di interagire con la fotografia, con la serigrafia creando nuovi linguaggi.
Crack è sempre stato anche musica e performance.
Le performance al festival sono interessanti perché servono a destabilizzare. È una cosa che abbiamo imparato dalla Fura dels Baus. Il pubblico per essere ricettivo deve essere “scotoliato”, come direbbero i napoletani, ovvero scosso. Se vuoi che il tuo pubblico sia pronto a capire le innovazioni, a vedere le cose che non si aspetta, devi metterlo in una condizione di instabilità, dargli uno spazio che è difficile da comprendere scuotendolo dalla posizione in cui è arrivato. Ne uscirà in grado di accogliere le differenze, iniziando a capire che il fumetto è una roba più complicata. I fumettisti indipendenti, poi, sono sempre stati legati alla musica. Pensa a Tuono Pettinato che faceva parte dei Laghetto, gli davano uno strumento in mano e lui faceva finta di suonare. Poi ci sono alcuni musicisti che sono da sempre legati a Crack, come Okapi e PopX.
Il tema di quest’anno è “Carne”, perché?
In Palestina il calcolo dei morti si fa in base alla carne. I cadaveri vengono ritrovati a pezzi, per contarli li mettono in una busta e li pesano: 70 chilogrammi equivalgono a una persona morta. Questa è la carne, l’umanità della Palestina restituita in una busta di carne. Però per noi carne è anche carnalità. Il corpo portato all’estremo del piacere, della possibilità di comunicare, dell’intersessualità, della capacità di esprimere generi, modi di essere. La capacità di convergere tra gli esseri. Anche il fumetto passa attraverso il corpo.
Il manifesto è l’unico modo in cui pubblicizzate ogni edizione e non è mai stato affidato a un uomo.
Sì, è già di per sé un’installazione e dopo le prime due edizioni abbiamo deciso che non poteva essere affidato a chi deteneva un privilegio di potere e il potere patriarcale è il più potente di tutti. Ma c’è anche quello coloniale. Quindi abbiamo scelto autrici native, che avevano spesso subito il trauma della migrazione, magari arrivate direttamente su di un barcone. Quest’anno, dopo tanto tempo, abbiamo di nuovo rivolto lo sguardo in Italia, verso il collettivo C.rude e chiesto a Salgaja. Perché rappresenta la rivoluzione che cresce, il legame tra diverse generazioni, femminismo e antispecismo e ha una visione decoloniale. Uno sguardo particolare che ci ha regalato un manifesto che è una festa. Perché la festa è un atto politico.
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