Non c’è dubbio che un esito paradossale della recente pandemia sia stato quella di costringerci a nuove domande. Da 4 anni a questa parte ogni conversazione inizia con «come stai?», perché star bene non è più scontato.

Abbiamo scoperto che stare bene era l’implicito che non potevamo più permetterci: da bravi criceti sulla ruota eravamo una popolazione votata a studiare o lavorare, comunque a fare, ciascuno il suo, senza fermarsi. E invece ci siamo fermati tutti, e soprattutto si è fermata la scuola. Quando abbiamo ripreso, faticosamente, ci siamo contati e qualcuno mancava, perché non usciva più di casa. Molti, fra gli studenti e le studentesse, erano finiti in psicoterapia.

La vecchia domanda rivolta a ragazze e ragazzi era «come va la scuola?», ma il bene o male della risposta apriva alla disamina dei voti, cioè chiedeva conto della performance. Ora è diventato «come stai a scuola?», cioè il soggetto sono loro, non la scuola. E non va bene, come ci dicono le risposte raccolte nelle scuole superiori, perché la pandemia ha sdoganato il malessere già presente e ha legittimato la richiesta di aiuto.

Oggi le neuropsichiatrie sono piene, e così pure gli sportelli psicologici a scuola e gli studi privati, anche perché manca un servizio pubblico in risposta a questo.

Pure la ricerca sociale ha cominciato a cambiare le domande. Nel 2022 è stata realizzata da Ires Emilia-Romagna e Alta Scuola Spi-Cgil l’indagine “Chiedimi come sto”, rivolta a studenti delle superiori e dell’università; nel 2023 l’indagine di Demopolis “La prospettiva degli under 18” ha affrontato temi analoghi, e ora un incontro pubblico diffuso in 149 città sul tema “Scuola e Benessere - Oltre l'ipercompetizione e l'omologazione” ha sondato in diretta con i 30mila studenti collegati alcune questioni implicate dal titolo.

Politicizzare il malessere

Cosa stiamo imparando di questo malessere? Qualche dato ormai consolidato: stare a casa da scuola incrementa le diseguaglianze perché aumenta il peso dello svantaggio di origine legato alle condizioni socio-economiche famigliari; la didattica a distanza, per come è stata fatta, genera scarsi apprendimenti; la cattività domestica alimenta la rabbia sociale e alla ripresa della vita pubblica si formano gruppi che la manifestano in risse e vandalismi; riprendere a fare lezione come nulla fosse è come non guardare l’elefante nella stanza, lascia incredula e amareggiata l’intera classe; le verifiche sono sempre più ansiogene.

Oggi la gran parte degli studenti e delle studentesse delle superiori dichiara di aver paura della scuola, non si ritiene soddisfatta della vita scolastica, vive sempre o spesso episodi di stress ad essa associati, non vede nei suoi insegnanti degli interlocutori per confidare problemi.

Come diceva Wright Mills nel suo famoso testo sull’immaginazione sociologica, quando un malessere non è individuale ma diffuso, la soluzione cambia. Quindi, se sta male una persona va aiutata quella persona, ma se stanno male in tanti è il contesto ad essere patogeno, è quello che va curato.

Per questo la soluzione degli sportelli psicologici e del bonus psicologo non funziona, anzi rischia di creare l’effetto “delega allo specialista”: occorre invece toccare le variabili di sistema, cioè intervenire su come si sta in classe.

Quel malessere va politicizzato, cioè va posto come chiave per agire dei cambiamenti nel modo di fare scuola. Per usare un esempio che mi fece una ragazza: una verifica può andare male, ma un conto è consegnare un “4” guardando il foglio, un altro è chiedere a quella persona cosa è successo, che difficoltà ha incontrato, se sta attraversando altri problemi, e immaginare insieme come migliorare. Così ti senti una persona, «ti senti guardata», altrimenti sei quel 4, e basta.

Competizione tossica

Il recente sondaggio citato sugli effetti del clima competitivo a scuola, fatto da Unisona Live e Unicef, conferma un dato che studenti e studentesse dicono da molto tempo, gli effetti nocivi della competizione scolastica. Prendiamo lo strumento di misura, i voti, per nominare i paradossi denunciati dagli studenti.

Perché essere misurati tutti allo stesso modo se si è tutti diversi, come si è ribadito anche in quell’incontro? Perché far passare l’idea che l’obiettivo sia “una pagella piena di 8 e 9”, quando in realtà si ha bisogno del contrario, capire cosa fa per te e investire su quello? Perché non creare un sistema che premi i progressi più che i traguardi? Perché non lavorare di più, e serenamente, sugli errori? Perché non sperimentare l’autovalutazione, visto che abbatte l’ansia degli studenti e trasforma quel momento penoso di consegna in un dialogo costruttivo? E perché ripetere tutte le materie se non si riesce in 2 o 3, perdendo un anno? E così via.

Attenzione, in adolescenza si ha bisogno di capire in cosa si è capaci, in realtà ragazze e ragazzi se lo aspettano, cioè ci chiedono un aiuto a capirlo ma anche di sganciare la scoperta di sé da un’arena competitiva che produce solo malessere.

Questa è una battaglia culturale, perché è tutta la società a essere ipercompetitiva, il mondo del lavoro, dello sport, delle arti non sono da meno. Il sociologo Richard Sennet fece una volta l’esempio dei concorsi, quelli per strumentisti di musica classica: per una persona che vince ce ne sono cento che perdono e centinaia che rinunciano a provarci, sentendosi inadeguate.

Siamo sicuri che un sistema che produce una persona vincente, da allora in poi in perenne ansia da prestazione, e centinaia di perdenti che forse rinunceranno a suonare sia quello che regala il piacere della musica alla sua popolazione?

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