Se pochissimi sono oggi in grado di enumerare i dieci comandamenti che secondo il racconto della Bibbia ebraica Dio diede a Mosè sul Sinai, tra queste prescrizioni molti ricordano bene quella che ingiunge di «non commettere atti impuri» (insieme almeno ad altre tre: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza).
Ma quasi nessuno sa che si tratta, nella tradizione della chiesa cattolica, dell’unico comandamento – il sesto per i cattolici e i luterani, il settimo per gli ebrei e altri cristiani – la cui formulazione è stata cambiata.

Si tratta di una storia cruciale che viene ora ricostruita e spiegata limpidamente da un saggio breve e denso di Lucetta Scaraffia (Atti impuri, Laterza), che da decenni studia il rapporto tra sessualità e tradizione cristiana.
«Lo scandalo degli abusi, la difficoltà a far accettare la propria morale matrimoniale e, più in generale, le difficoltà della cultura cattolica a fare seriamente il punto sul tema della sessualità costituiscono oggi i problemi più gravi e urgenti che la chiesa cattolica deve affrontare» afferma la storica.

La tragedia degli abusi

Non a caso a essere innanzi tutto evocato è lo scandalo mondiale degli abusi, raccontato dalla stessa studiosa in un altro libro (Agnus dei, Solferino, con Anna Foa e Franca Giansoldati). Il punto messo a fuoco in Atti impuri è infatti «il nodo della sessualità come sopraffazione», perché questo peccato – nonostante i mutamenti subiti dal precetto – nel cattolicesimo viene «sempre considerato comunque trasgressione del sesto comandamento e mai atto contro un’altra persona».
Come invece si è cominciato a capire dall’inizio del secolo: quando appunto è iniziata a emergere la tragedia degli abusi commessi (o insabbiati) da parte del clero e dei vescovi.

Gli atti impuri del comandamento includono però «un ventaglio molto ampio di peccati, che va dalla masturbazione alla contraccezione, al concubinato, alle relazioni omosessuali e alle violenze». Con un grave pericolo: quello «di edulcorare la violenza del male, del crimine, qualificando come peccati dello stesso tipo», sottolinea Véronique Margron, presidente dei religiosi francesi, «situazioni che non hanno niente a che vedere tra di loro, che non toccano l’integrità dell’altro». Mentre gravi abusi si sono avuti anche nelle nuove comunità cattoliche da parte degli stessi fondatori, come in un libro (Il tradimento dei padri, Queriniana) documenta la giornalista Céline Hoyeau.

Manca poi del tutto nella morale cattolica «l’idea per cui il consenso dell’altro è una condizione determinante per giudicare un atto sessuale». Scaraffia osserva che questo fatto deriva «da una concezione della sessualità prettamente maschile – mai una donna è stata ascoltata in proposito – secondo la quale anche la vittima di un abuso sessuale ne ricava piacere; di conseguenza la stessa vittima, pur non volendolo, si trova a trasgredire anch’essa il sesto comandamento».
A confermarlo sono i frequenti casi di abusi su religiose, come quello incredibile del mosaicista Marko Rupnik, scomunicato ma perdonato in circostanze oscure, espulso dai gesuiti ma poi incardinato in una diocesi slovena.

Una prospettiva storica

L’analisi contenuta in Atti impuri impone dunque nell’ambito del diritto canonico un ripensamento giuridico, avviato ma non ancora soddisfacente, per porre davvero al centro le vittime. Anche la riforma del 2021 continua infatti a parlare di delitti «contro il sesto comandamento» commessi «con» minori o altri. Era stato solo Benedetto XVI – in un testo in gran parte scritto di suo pugno, la lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda – a riconoscere nel 2010 con vergogna i «gravi peccati commessi contro ragazzi indifesi».

Insieme alla denuncia del male attuale, altrettanto interessante e convincente è nel libro di Scaraffia la ricostruzione storica delle origini e dei cambiamenti subiti dal comandamento, che è radicato nel decalogo, vero cuore delle Scritture sacre di ebrei e cristiani con l’alleanza stabilita sul Sinai.
«L’etica biblica sta e cade con l’idea del patto con Dio, e questo vale sia per l’Antico sia per il Nuovo Testamento, tanto per l’ebraismo quanto per il cristianesimo» scrive in proposito Jan Assmann in un libro magnifico (Esodo, Adelphi) da poco pubblicato.

Indagando questo mito fondatore del monoteismo nelle sue origini bibliche, e arrivando fino alla sua presenza nella riflessione, nella letteratura, nell’arte e nella politica contemporanee, l’egittologo tedesco mostra l’importanza radicale dell’uscita dalla schiavitù dell’Egitto, che diviene un simbolo universale, e del patto sinaitico. Fino a sostenere che i comandamenti – «come atto del Dio creatore che si rivolge al mondo con la parola» – sono paragonabili solo alla creazione del mondo con la quale inizia il vangelo secondo Giovanni.

Nella tradizione ebraica delle «dieci parole» il comandamento relativo agli «atti impuri» recita invece diversamente, sia nel libro dell’Esodo (20,14) che in quello del Deuteronomio (5,18), dove si legge «non commettere adulterio».
È dunque un comandamento relativo alle relazioni comunitarie, mentre nell’ambito cristiano, quando cambia, è «riferito al soggetto che agisce e non alle relazioni che intesse o che danneggia con l’atto sessuale».

Anche nell’ebraismo tuttavia il divieto dell’adulterio viene allargato dai maestri a tutti gli atti sessuali proibiti, sia pure con gradazioni diverse. Scaraffia ricorda poi che il biblista contemporaneo André Chouraqui lo ha tradotto «non adulterare», estendendolo così a «qualsiasi tipo di adulterazione nei comportamenti umani».

Nella storia del cristianesimo

Gesù aveva cancellato con la sua predicazione rivoluzionaria il concetto di impurità, che peraltro non era «specificamente legato al comportamento sessuale», rimandandolo più radicalmente «alla sfera delle intenzioni». Per questo in ambito cristiano il decalogo assume importanza ed entra nell’insegnamento catechetico solo più avanti nel tempo, verso la fine dell’età antica, con Agostino, agli inizi del V secolo.

Più tardi ancora, durante il medioevo, si fa strada l’opinione che la legge divina confermi quella naturale, affermandosi dopo Tommaso d’Aquino. Il cambiamento nella formulazione del sesto comandamento da «non commettere adulterio» a «non fornicare» – termine colto che equivale a non commettere atti impuri – interviene ancora più tardi, agli inizi dell’età moderna: compare e inizia a diffondersi con il catechismo voluto dal concilio di Trento e pubblicato nel 1566 per ordine di Pio V.

Il cambiamento è spiegato con il ricorso alle lettere dell’apostolo Paolo, secondo il quale il corpo è tempio dello Spirito santo. In questo modo «la contaminazione, cancellata da Gesù, era rientrata parzialmente nei discorsi di san Paolo sul corpo, nel suo definire sacro il corpo umano perché legato all’incarnazione». L’epoca della svolta nella formulazione del comandamento è quella segnata dalla frattura protestante e il concetto di impurità – nel quadro del disciplinamento successivo al concilio tridentino – serve a rafforzare l’appartenenza alla comunità cattolica.

Si sposta così lo sguardo dalle conseguenze sociali del peccato «a quelle spirituali nell’animo del peccatore», come conferma l’inedita importanza che viene ora data al peccato solitario per eccellenza: la masturbazione.
L’attenzione all’interiorità della persona si ritrova già nel catechismo scritto da Erasmo da Rotterdam nel 1533, intitolato Spiegazione del Credo e criticato da Lutero, dove si deplora la passione all’interno anche del matrimonio, istituzione che proprio con il concilio di Trento viene definitivamente consacrata insieme allo sviluppo della confessione, «strumento di formazione dei fedeli e di informazione del clero».

L’attacco al sesto comandamento e alla sua individualizzazione inizia tre secoli dopo, con l’accelerarsi della secolarizzazione, l’avvento della psicoanalisi e la rivoluzione sessuale. Il problema principale diventa la diffusione della contraccezione, alla quale la chiesa cattolica reagisce con la difesa della legge naturale fin dal 1930 con l’enciclica Casti connubii di Pio XI.
Ma dopo il concilio l’evoluzione si fa rapidissima: da un’altra importante enciclica – la Humanae vitae di Paolo VI, ridotta ingiustamente alla condanna della pillola – alla nuova valorizzazione teologica della sessualità coniugale con Giovanni Paolo II. Fino al Catechismo della chiesa cattolica, che nel 1992 abbandona la formulazione degli atti impuri e torna a quella originaria, e alle cronache attuali. Che in prevalenza ignorano questa lunga e istruttiva storia.


Atti impuri (Laterza 2024, pp. 88, euro 13) è un saggio di Lucetta Scaraffia

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