Il termine “democrazia” (dal greco demos, “popolo”, e kratos, “potere”) fece la sua prima comparsa in Erodoto. Ma dal III secolo a.C. al XIX ha subìto una lunga eclisse acquisendo un’accezione negativa, mentre il regime politico ottimale è stato definito “repubblica” (res publica, cosa di tutti): Aristotele classificò la democrazia tra le cattive forme di governo; Kant ripeteva una comune opinione definendola «necessariamente un dispotismo»; e dello stesso avviso erano i padri costituenti degli Stati Uniti. Anche la Rivoluzione francese si richiamava all’ideale repubblicano, e solo Robespierre usò il termine in senso elogiativo (assicurandogli così la cattiva reputazione per un altro mezzo secolo...). Com’è allora che d’un tratto, dalla metà del XIX secolo, la parola è tornata in auge e ha acquistato un significato apprezzativo? Ce lo spiega Giovanni Sartori, politologo di fama mondiale, morto nel 2017 colui che è stato il massimo esperto di scienza politica in Italia, preceduto dall’ampia introduzione di Nadia Urbinati in Democrazia, in uscita oggi per Treccani Libri.

Beppe Cottafavi

Il saggio si apre con l’analisi dei tre possibili significati di “democrazia”: come principio di legittimità; come sistema politico; come ideale. Sartori li tiene tutti e tre insieme, ma assegna al terzo un ruolo centrale, poiché su di esso si misura la distanza tra democrazia degli antichi e democrazia dei moderni, uno snodo cruciale nella sua interpretazione della democrazia. Se relativamente alla legittimità Sartori riconobbe la continuità con la tradizione democratica classica, perché sotto il profilo della titolarità la legittimità è senza dubbio nel “popolo”, quando dalla titolarità si passava all’esercizio la distanza tra antichi e moderni si faceva incolmabile, tanto che era opportuno pensare a due forme diverse di democrazia, benché portassero lo stesso nome.

La definizione di cui era alla ricerca Sartori è quella di una «democrazia senza qualificazioni», e questa è una sola: la “democrazia politica”. Democrazia politica si riferisce a un ordine sociale che non è, come quello degli antichi Greci, comunitario. Il “popolo” dei moderni è plurale e solo politico. Vi è poi un’altra peculiarità: per gli antichi, la democrazia era il nome di un governo pessimo o degenerato, mentre per i moderni essa ha assunto un carattere ideale e perfino ideologico, per cui la democrazia è nel nostro tempo anche un sistema di valori.

A partire da questa complessità storica e semantica, Sartori procede a spacchettare analiticamente il concetto di “democrazia” per delinearne gli ambiti e i contesti (sociale, economico e politico) e, infine, la distinzione tra significati (prescrittivo o descrittivo), così da giungere alla definizione: democrazia come forma di governo. Lo stile cartesiano del ragionamento è paragonabile a quello adottato da Isaiah Berlin nel 1958 per definire il concetto di “libertà” in maniera chiara e distinta da altri concetti con i quali ideologicamente veniva associata.

Definizioni minime e polarizzate, che servivano a sgombrare il terreno da iperboli e connubi e a ingaggiare la battaglia delle idee con l’intento di escludere che la democrazia potesse essere, per esempio, sociale ed economica senza essere prima di tutto politica. Sartori rubrica quel che sta fuori e quel che sta dentro lo Stato – nella sua forma moderna e della decisione politica che si fa legge con potere coercitivo – in due larghe categorie: microdemocrazia e macrodemocrazia. Nel primo caso si tratta di “democrazia primaria” (una espressione coniata da Dahl) e comprende quell’insieme di «piccole comunità e associazioni volontarie concrete che innervano e alimentano la democrazia a livello di base, a livello di società civile»; una «“società multi-gruppo”, strutturata in gruppi volontari che si autogovernano. Qui, dunque, democrazia sociale sta per l’infrastruttura di microdemocrazie che fa da supporto alla macrodemocrazia d’insieme, alla sovrastruttura politica».

Interazione fra diseguali

Nel secondo caso, la “macrodemocrazia” è invece quella politica in senso proprio, ed è l’oggetto di questo saggio. Il nome di un sistema politico, dunque, non semplicemente di relazioni di eguaglianza o mutualità tra pochi o in gruppi di pochi simili, come nell’idealità partecipativa. A livello “macro” la democrazia consente quel che non consente a livello “micro”: l’interazione, civile e su una base di eguaglianza giuridica, tra persone tra loro non simili e anche diseguali sotto molti aspetti. Questa premessa è importante per liberare il terreno da due connubi comuni nella sinistra, il principale oggetto polemico di Sartori: l’identificazione della democrazia con la democrazia sociale e/o con la democrazia economica. Come vedremo in seguito, per lui l’unica eguaglianza “promessa” dalla democrazia era quella per legge e di fronte alla legge, la classica isonomia.

La definizione sartoriana di democrazia «senza qualificazioni» ci porta alla democrazia liberale che è la democrazia «dei moderni», rappresentativa e incastonata in uno Stato sovrano con un’ossatura istituzionale che ha preceduto la democratizzazione. La “democrazia politica” o dei moderni si distingue da quella degli antichi, non solo perché quest’ultima è governo diretto dell’assemblea popolare ma anche perché in quella dei moderni vige il principio di maggioranza, che si attua attraverso il voto elettorale e la formazione di organi decisionali che rispondono al committente principale, i cittadini, e il cui potere nasce limitato per estensione temporale e per intensità. Potremmo dire che per Sartori la democrazia dei moderni è strutturalmente prediposta a creare un potere limitato, contrariamente a quella degli antichi, perché riposa su una società che è liberale nelle relazioni civili ed economiche.

Su questa base, egli chiarì anche la sua idea di teoria della democrazia rispetto a quelle perfezioniste o utopistiche. In una rilettura del pensiero di Vilfredo Pareto, Sartori aveva scritto alcuni anni prima che in democrazia ciò che conta è il voto, che non assicura la qualità delle decisioni perché non è un indicatore epistemico. La ricchezza e l’articolazione del foro di discussione non tolgono arbitrarietà al voto e non rendono più competenti i cittadini né più sagge le loro decisioni.

È pur vero del resto che «informazione non significa conoscenza», e mentre la conoscenza presuppone informazioni, «ciò non significa di per sé che chi è informato conosca». Ciò comporta due cose: primo, che l’esposizione delle persone alle informazioni non implica che le loro opinioni cambino o migliorino; secondo, che votando, non importa quanto spesso, non impariamo a votare meglio (cioè in modo più «competente» o «razionale»).

Il problema dei buoni

Da questo avvio non elogiativo della democrazia Sartori ricava una considerazione che è molto rispettosa della democrazia, anzi diremmo protettiva: non si deve chiedere al potere politico del sovrano democratico di essere competente e produrre buona deliberazione, poiché il voto è un’ammissione di potere minimo che non ha l’ambizione di essere il migliore dal punto di vista degli esiti.

Sartori ci offre così una difesa della democrazia dal rischio forse più subdolo, quello che viene dai suoi estimatori: in anni successivi alla pubblicazione di Democrazia, iniziarono ad associare la bontà della democrazia con la possibilità delle procedure deliberative di dare risultati epistemicamente buoni. Si tratta di sviluppi interni alle due concezioni della democrazia che Sartori ha criticato persistentemente senza concedere sconti: quella cosiddetta partecipativa prima e quella deliberativa poi.

Contro queste concezioni ideali egli propose la seguente lapidaria affermazione: non si impara a votare votando. Ovvero non si chieda al voto di essere quel che non è, un’espressione di conoscenza. La democrazia elettorale è un mezzo per giungere a un contenuto che non coincide mai con le promesse elettorali e non è mai giudicabile solo per la sua bontà che, del resto, è bontà per alcuni soltanto, mai per tutti. Insomma, le procedure e le istituzioni non ci assicurano decisioni epistemicamente buone o soddisfacenti, mentre ci assicurano decisioni legittime, bussole di giudizio che tutti i cittadini comprendono e che alcuni organi istituzionali sono predisposti a giudicare con autorevolezza.

Diritto di voto e regola di maggioranza sono i cardini della democrazia politica, e decretano l’originalità della democrazia dei moderni, che «è rappresentativa e presuppone, come sua condizione necessaria, lo Stato liberal-costituzionale, la controllabilità del potere». Questa democrazia è messa in essere attraverso corpi intermedi come i partiti (attori sociali importanti e inevitabili per Sartori) e un sistema di diritti civili che consentono il pluralismo delle opinioni e il dissenso.

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