I due sembrano non avere nulla in comune, ma Giammattei ha scoperto in un inedito un elemento che li unisce. Entrambi vengono al mondo dopo un fratellino morto in fasce. Circostanza, per entrambi, con conseguenze
Che cosa hanno in comune Jacques Derrida e Benedetto Croce? Ben poco, anzi proprio nulla possono avere in comune le loro filosofie. Il secondo, Croce, è forse l’ultimo filosofo contemporaneo ad aver composto un sistema, come si faceva fino all’Ottocento; il primo, Derrida, è il decostruttore della filosofia occidentale, sempre intento a disarticolare gli edifici concettuali dei suoi predecessori. Uno viene dalla tradizione dell’idealismo tedesco, da Kant e da Hegel, l’altro dalla Fenomenologia di Edmund Husserl filtrata attraverso Heidegger.
Ma ancora meno sembrano avere in comune le loro biografie. Croce rampollo della grande borghesia meridionale, autodidatta formatosi al di fuori dell’università, mai stato professore, senatore del regno, ministro con Giolitti, punto di riferimento dell’antifascismo dopo aver inizialmente guardato benevolmente al regime nascente, poi impegnato nella ripresa democratica fino ad essere candidato da Nenni alla presidenza della Repubblica.
L’altro, Derrida, nasce in Algeria nel 1932 da una famiglia di piccoli commercianti ebrei. Espulso dalle scuole nell’Algeria di Pétain, vedrà la Francia solo alle soglie dell’età adulta, quando studia filosofia a Parigi assieme a Louis Althusser, e poi segue la trafila della carriera accademica, ma sempre sentendosi un po’ emarginato dalle istituzioni, sempre un po’ fuori dai ruoli ufficiali. Nel 1979 è l’animatore degli Stati generali della filosofia, per protestare contro l’abolizione dell’insegnamento della filosofia nei licei.
Nel 1981 viene arrestato a Praga dove era andato ad appoggiare i dissidenti di Charta 77, poi si occupa del problema dell’accoglienza e dei migranti. Croce è stato il filosofo italiano più noto internazionalmente nella prima metà del Novecento, poi dimenticato nella seconda; Derrida ha avuto un enorme seguito negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso e fino alla morte avvenuta nel 2004, influenzando la critica letteraria, l’architettura, la politica.
Autobiografi tutta la vita
Eppure, questi due filosofi tanto diversi qualcosa in comune ce l’hanno. Molti pensatori non ci parlano di sé stessi, non ci raccontano nulla delle loro vite. Hegel diceva che se nei suoi scritti c’era qualcosa di personale voleva dire che era falso, Husserl desiderava che il suo fosse preso come “il pensiero di nessuno”. Croce e Derrida, invece, hanno raccontato di sé in molte forme, sono stati autobiografi tutta la vita, un po’ come Nietzsche che addirittura scrive la prima autobiografia a quattordici anni e l’ultima, Ecce homo, prima di sprofondare definitivamente nella pazzia. Derrida accumula scritture su di sé, dialoga con le biografie degli altri, riflette sulla memoria.
Croce scrive un’autobiografia intellettuale alle soglie della Prima guerra mondiale, e la intitola ironicamente Contributo alla critica di me stesso, ma poi tiene anche un Diario di lavoro, per più di quarant’anni, dal 1906 al 1948, annotando giorno per giorno letture, incontri, esperienze politiche. Derrida mette in rilievo la connessione che lega la scrittura autobiografica alla morte. Che non è, come si potrebbe pensare, la morte propria (come Darwin che voleva scrivere le proprie memorie «come se fosse morto»), ma in primo luogo la morte di una persona cara.
L’opera più dichiaratamente autobiografica di Derrida, che si intitola Circonfession (facendo una crasi tra la Confessione come forma classica di autobiografia, da Sant’Agostino a Rousseau, e la circoncisione che attende ogni bambino ebreo alle soglie della vita) si lega alla malattia e alla morte della madre; il Contributo di Croce viene scritto dopo la scomparsa di Angelina, la donna che Croce aveva amato e alla quale era stato legato per vent’anni, dal 1893 al 1913, quando Angelina muore per una malattia cardiaca.
Essere amato al posto di un altro
C’è però anche un’altra morte dietro le loro biografie, una morte molto meno visibile ma forse non meno importante nello sviluppo delle loro vite. Entrambi, Croce e Derrida, vengono dopo un fratello morto pochissimo tempo prima della loro venuta al modo, un fratello di cui hanno preso il posto, e addirittura, nel caso di Croce, il nome.
Un fratello che li pone nella condizione inquietante di sentirsi dei sostituti, forse degli usurpatori, in ogni caso dei redivivi, dei ritornanti, e che fa loro intuire un conflitto possibile nel cuore della madre, afflitta per la perdita del figlio che li precedeva e forse incapace di provare autentica gioia per quello che è venuto dopo di lui, e ne ha preso il posto. Situazioni oggi per fortuna divenute rare, ma un tempo, a causa della mortalità infantile altissima, relativamente comuni. Derrida non è solo preceduto, ma anche seguito da un fratello morto. Prima di Croce c’erano stati due fratellini morti piccolissimi, e ce ne saranno altri due morti in fasce prima del fratello e della sorella sopravvissuti all’infanzia.
Derrida accenna solo brevemente a questo fratello di cui si sente in qualche modo il rimpiazzo, ma descrive con molta precisone il modo in cui ha vissuto questa condizione. Sua madre «ha perduto due figli, uno prima di me, Paul Moisé, morto nel 1929 all’età di un anno, un anno prima della mia nascita, cosa che deve aver fatto di me per lei, per loro [i genitori] un intruso prezioso ma vulnerabile, un mortale di troppo. Elia (così Jacques Derrida era chiamato in famiglia), amato al posto di un altro».
Croce, invece, non parla mai di questo fratellino morto. E dunque non ne potremmo parlare nemmeno noi, se una acuta e tenace studiosa di Croce, Emma Giammattei, non avesse recentemente portato alla luce un documento singolare, sfuggito all’attenzione persino dei biografi di Croce.
Una sorta di confessione autobiografica in terza persona, sotto forma di documento amorosamente recuperato e curato da Croce, in primo luogo, ed ora reso noto in un piccolo libro dal titolo Il redivivo. Benedetto Croce e il quaderno segreto (Hoepli 2024).
Il redivivo
Quando nacque il piccolo Benedetto, destinato a diventare il grande filosofo, la madre Luisa Sipari doveva trovarsi in una condizione d’animo non facile. Il padre, Pasquale Croce, copia allora per lei la traduzione di una poesia di Victor Hugo intitolata Le revenant. A riprova di quanto la situazione in cui si sono venuti a trovare Derrida e Croce fosse un tempo comune, in essa il poeta francese traspone la vicenda cui era andato incontro con la morte del figlio Léopold, seguita dalla nascita della figlia Léopoldine.
All’arrivo di un nuovo figlio, la madre non sa risolversi ad amarla, tutta assorbita ancora nel dolore della perdita recente. Hugo immagina allora che il bambino stesso parli alla madre e le dica di essere il figlio perduto, che è ritornato. Pasquale Croce non era un letterato (il figlio lo descriverà come dedito interamente alla amministrazione dei cospicui beni familiari), ma lesse, forse per caso, la poesia su una rivista apparsa l’11 febbraio del 1866, e la copiò per farla leggere alla moglie. Benedetto secondo sarebbe venuto alla luce il 25 febbraio dello stesso anno.
A questo si lega la seconda parte della storia, ricostruita con il piglio della indagine poliziesca da Giammattei. Il filosofo Croce, nel 1916, si mette sulle tracce del traduttore, giovanissimo all’epoca della pubblicazione, ma allora suo collega in Senato. È lo storico della letteratura Isidoro del lungo, che gli conferma che quelle parole, trascritte da Pasquale Croce in bella calligrafia e con solo pochissime varianti, sono quelle della sua traduzione.
Croce allora ‘monta’ in un piccolo libricino legato da lui stesso (Croce, grande bibliofilo, si dilettava anche di questi aspetti manuali della bibliofilia) che nel lavoro di Giammattei viene reso in una sorta di edizione diplomatica, cioè nella sua interezza, copertine comprese.
Vi trovano posto la lettera di Croce al traduttore, la trascrizione del padre, e due lettere: una in cui Pasquale Croce annuncia la nascita del “secondo” Benedetto, e una in cui il cugino del padre, il famoso politico Silvio Spaventa, chiede invece notizie sulla nascita del “primo” Benedetto.
Il libricino resterà in vista sul comodino nella camera da letto del filosofo. Poi se ne son perse le tracce fino a che Giammattei non lo ha recuperato. Quel che Croce non poteva sapere, quando componeva questa piccola reliquia, è che luna sorte analoga si sarebbe ripresentata anche a lui. L’anno seguente gli moriva il piccolo Giulio, ad appena un anno. Lo avrebbe seppellito nella stessa tomba del proprio padre.
Il redivivo. Benedetto Croce e il quaderno segreto (Hoepli 2024, pp. 160, euro 18) è un libro di Emma Giammattei
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