Diabolik è femminista. O quasi. La qual cosa dovrebbe gratificare in primis la ministra Bonetti, all’uscita del film dei Manetti Bros., il 16 dicembre, dopo il lungo parcheggio forzato da Covid.

Svolta epocale

Prossimo ai sessant’anni com’è, il man in black delle sorelle Giussani non si è mai impantanato nel vecchio e ipocrita adagio per cui “dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna”. L’insidia stava in quel “dietro”.

L’albo fondante del personaggio evoluto è quel numero tre del 1° marzo 1963 (titolo L’arresto di Diabolik) in cui il giovanotto si accasa con la vedova nera Eva Kant. E fa un po’ più che accasarsi: fa squadra. In poche tavole si consuma una svolta epocale, di costume e cultura nazionale.

Tra i simpatici meriti di Marco e Antonio Manetti c’è proprio quello di aver intercettato l’occhio femminile delle creatrici e la polemica implicita in una conversione che nell’Italia degli anni Sessanta era di là da venire.

Per il grande pubblico, è solo una faccenda di cuore. Ma il mariuolo una femmina a casa, subalterna, spaurita e inchiodata al focolare –  come buona parte delle sue contemporanee – già se l’è garantita. È una moglie di facciata, da comandare a bacchetta. Una compagna di vita è un’altra faccenda: pretende parità, non può stare “dietro”.

Così si spiega il pari spazio che gli anti-Marvel del nostro cinema riservano a Miriam Leone, cioè Eva Kant, e a Luca Marinelli, cioè Diabolik, nell’incipit del loro film. Non è l’eroe che incontra la donna della sua vita, sono due tosti che fanno team. Le pari opportunità, nella coppia, non sono utopia. È lei a prendere, sessualmente, l’iniziativa, e provvederà subito anche a salvargli la pelle. Statisticamente, nelle centinaia di avventure a seguire, questo accadrà molto più spesso dell’inverso.

Photo Credit Davide Pippo

Non sarà questo però a sconcertare il pubblico dei supereroi, in attesa di un contender made in Italy dei mainstream chiassoni che ancora resistono alla defezione delle sale. Gli smaliziati resteranno spiazzati da un viaggio a ritroso nel cinema che ha ingenuità dimenticate, meno globalizzate dalle true lies degli effetti speciali.

Indietro nel tempo

Diabolik è un fumetto vintage. Nasce come figlio legittimo degli “stranieri” Fantomas e Rocambole. E Diabolik è un film rétro, ti trasporta per stile, estetica, tecnologie e recitazione, perfino, in certe preistoriche serie tv, come Il Santo o Attenti a quei due, coi loro split screen, o tra quegli agenti segreti di serie b, come Matt Helm, in cui la cartapesta era di rigore.

Ostenta botole segrete rudimentali e fette di montagna comandate a molla. Non trucca le carte, è un film analogico per programma e filologia scrupolosa. È spericolatamente controcorrente. Il rischio è altissimo e richiede parecchio ardimento, come la scelta di girarlo in italiano, contro ogni logica di piazzamento sui mercati internazionali.

Anche per questo il “progetto Manetti” ha vinto le annose resistenze della storica casa editrice Astorina, sorda alle sirene del cinema dopo l’assaggio pop firmato nel 1968 da Mario Bava, con le musiche di Ennio Morricone e con John Phillip Law a rubare ai ricconi.

Nel rispettabile film di Bava – diventato nel tempo un piccolo culto nonostante il budget tagliato in corsa dai produttori – Diabolik era parente stretto di James Bond, e con orrore delle Giussani non indossava la maschera.

Quello dei Manetti, che firmano il soggetto con il direttore editoriale di Astorina, Mario Gomboli, partner storico delle Giussani, ricorda più “il cinema di papà” – come lo chiamavano i pionieri della nouvelle vague – Cary Grant nei panni del “Gatto” di Hitchcock, con la sua Jaguar da consumista d’alto bordo emblematica quanto le decappottabili di Caccia al Ladro. E Hitchcock c’è nel film, puntualmente citato, per vezzo, con una inconfondibile inquadratura da dentro un bicchiere.

Cinema classico dunque, con la colonna sonora di Pivio e Aldo De Scalzi –  vecchi complici dei Manetti anche per Song’e Napule e Ammore e malavita – a rivangare negli archivi sepolti degli effetti “gialli” all’antica, quelli che nel mezzo del cammin del secolo scorso si incaricavano della suspense.

Dettagli sporadici richiamano Batman – l’oscurità che è anche la cifra di Diabolik, la scritta fiammeggiante in cielo del titolo di testa – e la Pantera rosa del grande Blake Edwards, perché il favoloso diamante in ballo nel film è dello stesso colore. Ma è un depistaggio. L’icona non va tradita per inseguire altri modelli.

È singolare ricordare come l’uomo mascherato che aveva preso in prestito gli occhi – almeno quelli – dalla star Robert Taylor si sia intrecciato alla storia politica e civile d’Italia. Fu usato addirittura nella campagna per il divorzio, chiamato a schierarsi per il no al referendum, anche se pochi ricordano quell’episodio.

L’icona è anziana ma vitalissima, stando alla quota Novecento a cui gli albi che lo vedono protagonista si stanno avvicinando. E si presta a letture nuove. Perché ad esempio non leggere Diabolik come metafora noir dell’attore? Non sono solo le maschere, il camaleontismo, l’attitudine a vivere mille vite diverse a scopo di lucro: tra le poche libertà che si concede rispetto al fumetto, il film “inventa” gli esercizi vocali di Marinelli per diventare un clone perfetto.

Non mi appoggiano interamente, i registi, in questa lettura. Ma riconoscono che il lavoro di preparazione dei “colpi” è come la costruzione di un set, con le sue sequenze pianificate, tempi e copione da rispettare.

Partita senza vincitori

Photo Credit Davide Pippo

Creatura glaciale e multipla, Diabolik in fondo è un vampiro di esistenze. Chissà se sfrutteranno questa chiave i Manetti, che sono già a metà strada con le riprese del sequel. Sempre per il grande schermo, e senza tuffarsi, per ora, nella serialità da piattaforme: è un atto di resistenza attiva. 

Verso la fine degli anni Sessanta – come recita la dicitura in calce a inizio film – si sognava più di adesso, i telefoni avevano il filo e ai file si preferiva il cartaceo. Da veri nerd, i Manetti hanno seguito nei dettagli la mappa di Clerville, che esiste davvero ed è un oggetto di culto per i devoti.

Le strade della Milano razionalista che ha fatto da set primario del film rispecchiano scrupolosamente i nomi fittizi di quella mappa, per la gioia dei veri iniziati. Lady Eva Kant – perché n’aristocratica nei fumetti faceva sempre la sua brava figura – è una creatura di lusso, fresca vedova con un oscuro passato.

Intorno a lei si muove la squadra già collaudata dai fratelli registi nei film napoletani: tra gli altri Serena Rossi (che è la moglie-schiava ignara) e il  perfido Alessandro Roja, ricattatore ma anche viceministro della Giustizia, determinato a impalmare la ricca lady. 

Miriam Leone però, come tutte le algide bionde bollenti del vecchio Hitch, ha una spiccata preferenza per il brivido e per le emozioni. Chi può diventare il suo segreto oggetto del desiderio, se non il diabolico ladro che terrorizza Clerville? Sul primo bacio esplodono i violini dei fratelli De Scalzi: che nostalgia, la passione musicata! Sono convenzioni stilistiche che si tengono tutte, come una recitazione costantemente sopra le righe, da filologia pulp senza rivisitazioni tarantiniane.

Il gioco libero, risparmiato dai cliché e dalle convenzioni, è riservato al nemico giurato di Diabolik, l’ispettore Ginko di Valerio Mastandrea, e al suo braccio destro, che è Piergiorgio Bellocchio, anche produttore esecutivo del film. I loro duetti sono intervalli di recitazione autentica e senza briglie.

Il Ginko di Mastandrea ha la sobria malinconia del perdente ostinato, che probabilmente, sostiene, «si attiene alla legge proprio per evitare di catturarlo davvero».

È una partita a scacchi senza mai vincitori e, nel passaggio allo schermo, un ripasso di incarnazioni: Claudia Gerini, qui in un cameo, fu Eva Kant in un video di Federico Zampaglione. C’è chi insegue la sua occasione, c’è chi insegue la propria fine, c’è chi insegue la sua ossessione, canta Manuel Agnelli. È un’epigrafe decisamente felice.

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