Il voto della sala stampa lo ha premiato, portandolo in quarta posizione alla prima serata del Festival. Il cantautore Diodato, con Ti muovi, anche in questa edizione di Sanremo si conferma tra i favoriti, dopo il brano Fai rumore che ha conquistato il primo posto sul podio nel 2020.

«La canzone è arrivata dopo l’estate, nel mio studio di registrazione a casa. A un certo punto ho sentito un’esplosione, ho capito che la parte strumentale doveva essere affidata a un’orchestra. E il pensiero è andato subito a Sanremo. Fin dalla prima prova ho sentito che il pezzo stava trovando la giusta dimensione».

Testo e musica sono tuoi. Quanto c’è di autobiografico?
«Tanto. Sono considerazioni che ho fatto io, frasi che ho detto a una persona. Ma è nata anche nella condivisione, stavo provando sensazioni di un certo tipo, riaffioravano cose, e in quel periodo avevo di fianco persone a me molto care che vivevano storie tormentate. Molto dure anche. Estreme anche. E ho percepito molti punti di contatto con le mie emozioni. È in quel momento che ho capito che dovevo affrontare il brano che avevo in testa. Anche incontrare storie altrui mi ha portato a voler scrivere».

Perché tornare a Sanremo?
«Ho iniziato a pensare che sarebbe stato bello tornare a dieci anni dalla mia prima partecipazione al Festival, nel 2014 con Babilonia. E all’ultimo anno di un ciclo iniziato con Amadeus con Fai rumore. Volevo esserci».

Come si gestisce l’ansia da palco?
«L’ansia da prestazione c’è sempre, è fisica. Ti chiude la gola e sembra che non sai fare più niente. Io provo a concentrarmi su quello che devo fare. E sulle emozioni che vorrei provare. La cosa più brutta degli stati ansiosi è che non ti vivi quello che stai facendo. Ti trovi davanti a tutte le persone che sognavi ti ascoltassero, ma sei in preda a una tensione che poi scendi dal palco e dici: “Ma ho cantato? Non me lo ricordo neanche”. Entro in questo stato di trance ingiusto, che non va bene. E cerco di domarlo».

Qual è lo strumento con cui componi?
«Il pianoforte, trovato per caso in una casa che avevo preso in affitto quando mi sono trasferito a Roma. Avere un piano che vibra è importante (si mette a suonare con quello che ha davanti, ndr). Il violino è stato il mio primo amore però. Alle medie a me e ai miei compagni ci fecero fare delle prove per mettere alla prova l’orecchio e la metrica. La mattina dopo entrò la preside per dirmi che ero arrivato primo a tutte le prove. I maestri del conservatorio mi consigliarono di studiare il violino, lo strumento più importante. A cui seguirono due anni di studio, torturando tutta la famiglia».

Taranto è la tua Itaca?
«Alla mia terra sono legato. Mi torna spesso in mente la fondazione di Taranto, spartani esiliati a cui l’oracolo aveva detto che avrebbero trovato la loro terra quando, un giorno, avrebbero visto piovere a ciel sereno. Dopo una lunga Odissea nel mediterraneo arrivano nel porto di Satùro, a Taranto, e Falanto, il capo, la fondò nel 700 AC. “In queste lacrime a ciel sereno c’è un destino segnato, la mia terra ho trovato”, disse. Questa frase è anche mia».

Quando ti torna in mente?
«Da bambino ho vissuto tanto in giro, mio padre viaggiava per lavoro e io cambiavo spesso casa, amicizie e scuola. E ricominciavo da capo ogni volta. Dopo le medie mi sono trasferito a Taranto, ho fatto lì il liceo, e subito dopo sono partito per Roma. Però mentre vivevo lì ho sentito un richiamo, mi sentivo un uomo senza terra. Le radici che un po’ sentivo mie erano quelle della terra di mia madre, un posto che aveva bisogno d’aiuto. Il mio destino era segnato».

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