La gravidanza può essere una straordinaria fabbrica di nuove paranoie: sushi, valigie pesanti, acqua calda, l’onnipresente toxoplasma che si annida ovunque e ci porta a chiederci quante feci di gatto abbiamo effettivamente ingerito nella nostra vita finora, prima che questa nuova condizione ci portasse a lavare il cibo con l’amuchina e a rassegnarci a non mangiare più un’insalata che non abbia un vago retrogusto di piscina comunale.

Tutto diventa un potenziale pericolo, improvvisamente il mondo è una gigantesca trappola mortale e i mesi della gestante trascorrono in uno stato di ansia variabile, ma sempre presente.

Partendo da una base di paure assortite già abbastanza sviluppata, otto mesi fa avrei scommesso contro me stessa: sarai terrorizzata da tutto per il resto della tua vita, più di quanto non fossi già.

Invece, nonostante l’algoritmo di Instagram faccia di tutto per spaventarmi con una vasta selezione di video di parti in acqua e bambini cianotici dalle teste a pinolo, mi appropinquo alla fine di questa esperienza con una pace interiore che non mi sarei mai aspettata da me stessa.

Certo, penso a Rossella O’Hara ogni volta che faccio le scale, premurandomi di non farmi schiaffeggiare dal mio fidanzato se non a piano terra. Certo, rimpiango ogni giorno il litro di piña colada che ho bevuto l’estate scorsa, quando ero incinta ma ancora non sapevo di esserlo. Certo, la mia percezione del pericolo si è acuita, anche se non pensavo fosse possibile attraversare la strada con una cautela maggiore di quella che già applicavo prima.

La fabbrica delle paranoie

Ma in generale ho scoperto di avere un approccio alla faccenda molto più disteso di altre donne con cui mi sono confrontata in vari contesti, primo fra tutti quello del corso preparto. Realizzi di essere la tipa scialla quando nel gruppo Whatsapp del corso trovi una conversazione di 57 messaggi sulle taglie dei sacchi-nanna e sulla corretta temperatura a cui far dormire un neonato.

«Io normalmente tengo a 24 gradi» scrive una, «guarda che è illegale» le risponde un’altra prima di aggiungere che comunque fa male al bambino.

Non mi sento di giudicare, perché la fabbrica delle paranoie comunque ha appena aperto: un conto è viversi bene la gravidanza, ma cosa succede quando c’è un essere umano di cui prendersi cura e di cui sarai per sempre responsabile? Sarà forse quello il momento in cui darò finalmente sfogo alla mia vera natura?

A giudicare da come ho preso la notizia della neonata rapita a Cosenza mi sento di dire di sì. Ho seguito il caso con morbosa attenzione, con un coinvolgimento che non so se avrei provato se non dovessi partorire fra poche settimane (ma forse sì, perché la storia è terrificante, ma anche abbastanza ricca di dettagli fantasmagorici per diventare un’ottima miniserie di Hbo). Ho letto tutto, visto tutto, ho guardato Chi l’ha visto? con l’interesse che un tempo avrei riservato a un film d’autore, in cerca di non so bene cosa: rassicurazioni? Indizi su come non farsi rubare un bambino in ospedale?

Il lieto fine ha tamponato la situazione, ma io ho comunque deciso di trarne una nuova ansia che in parte era già germogliata alcuni mesi fa, guardando C’era una volta in America per la centesima volta, nello specifico durante la scena in cui tutti i bambini nel puerperio dell’ospedale in cui è appena nato il figlio del capo della polizia vengono scambiati di culla dalla banda di De Niro. Ecco dunque già instillata la prima paura che accoglierà mio figlio su questa terra: sarò in grado di riconoscerlo? Non ho forse sempre pensato che i neonati si somigliassero tutti?

Mentre apprendo costernata che Rosa Vespa – nome meraviglioso – si è appropriata di una bambina altrui senza incontrare particolari resistenze, semplicemente fingendosi un’ostetrica di turno, mi trattengo dal mandare una mail all’ospedale in cui partorirò per sondare il grado di sicurezza del loro reparto maternità e l’affidabilità dei braccialetti che appongono al polso dei neonati. Quanti ne perdete ogni anno? Un microchip come quello dei cani non sarebbe più sicuro?

I dibattiti su WhatsApp

Intanto sul gruppo di WhatsApp delle future mamme è partito un nuovo dibattito assai avvincente sulla annosa questione della borsa per la sala parto. Che in verità non dovrebbe essere dibattuta più di tanto: l’ospedale ci ha fornito un pratico schema con disegnetti delle cose da portare con noi quando saremo in travaglio, dovrebbe essere piuttosto semplice organizzare l’evento. Invece molte non sono sicure di quali pantofole siano più adeguate per l’occasione, e quale marca di assorbenti sia più indicata per le vagine sbrindellate di chi ha appena partorito.

Una dice che ha paura che i bottoni frontali sui body per il nascituro feriscano la pelle delicata di un bambino appena nato, un’altra ha ricevuto pareri discordanti sulla fascia addominale, che tuttavia non compare nel pratico vademecum dell’ospedale.

Io di nuovo prendo atto di questo inaspettato spirito hakuna matata che a quanto pare è la mia personalità da donna gravida, evito di intervenire nella chat scrivendo «Jamaica no problem» e prendo un appunto mentale per assicurarmi che alla mia borsa per l’ospedale non manchi l’unico articolo che nessuna, incredibilmente, sta menzionando: un pennarello Uni Posca con cui marchiare mio figlio prima che a qualcuno salti in testa di scambiarlo con quello di qualcun altro. La madre degli idioti è sempre incinta, ma pure quella dei cacasotto, insomma.

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