Il sushi è probabilmente uno dei casi di successo più clamorosi nella storia dei prodotti alimentari e della ristorazione. Questo dato risulta ancor più sorprendente ed eclatante in Italia, un paese che si vorrebbe estremamente conservatore e legato alle proprie tradizioni gastronomiche. E invece i numeri ci dicono che il mercato italiano del sushi è letteralmente esploso nell’ultimo decennio. Dopo un’iniziale sensazione di incertezza generale, il sushi ha proliferato nel panorama italiano, soprattutto per la varietà offerta dalla cucina giapponese, sia in termini di qualità dei prodotti che di punti vendita.

La diffusione

Oggi l’Italia è il primo paese europeo per consumo di sushi in tutte le sue varie forme di distribuzione (ristoranti, sushi bar, delivery, sushi corner, ecc.) e già questo dato dovrebbe dirla lunga sulla sacralità del cibo italiano: una religione alla quale credono sempre meno gli italiani stessi, nonostante una martellante e incessante campagna di informazione che vorrebbe convincerci della naturale superiorità dei nostri piatti, oltre che delle lontanissime radici storiche degli stessi. Quasi che gli italiani avessero nel loro Dna il gusto obbligato per tortellini, pizze, maccheroni e tiramisù, per poi scoprire che sono sempre pronti a buttarsi sull’ultima novità più o meno esotica, dal sushi, appunto, al pokè, passando per il kebab.

Proprio la retorica sulla cucina italiana, come simbolo identitario del paese, della sua cultura e della sua storia, porta spesso la politica e anche l’informazione a reagire di fronte alla proliferazione di cibi, cucine e ristoranti che non appartengono alla nostra tradizione. Sorvolando su iniziative politiche volte a impedire l’apertura di ristoranti etnici nei centri storici di alcune città d’arte, come nel caso di Firenze, lo strumento di reazione più semplice ed efficace resta la diffusione della paura. Anche nel passato i cibi nuovi creavano quasi sempre timori proprio in quanto sconosciuti. Ma nei secoli passati, soprattutto prima della cosiddetta rivoluzione scientifica, giocava un ruolo centrale anche la scienza medica, che, in quanto priva di strumenti analitici adeguati, era propensa ad avanzare ipotesi stravaganti o ideologiche. Grazie ai progressi metodologici negli ultimi due secoli, si potrebbe pensare che la scienza e la medicina sarebbero state immuni dal rischio di diffondere paure immotivate, ma così non è; anzi, la tendenza a tirare per la giacchetta gli scienziati e i ricercatori è addirittura aumentata, probabilmente sotto la spinta di mass media sempre più potenti e pervasivi.

La diffusione di notizie sui disturbi più o meno gravi riscontrati da coloro che hanno consumato un pasto a base di sushi, ma il discorso vale anche per il kebab, fa sempre perno su precise diagnosi mediche. È il caso, ad esempio, della campagna stampa iniziata nell’autunno 2016, nella quale si parlava apertamente di una specie di epidemia provocata dal sushi: i toni usati dai giornali e dai notiziari televisivi erano assolutamente sopra le righe; si parlava apertamente di “mal di sushi”, mettendo sul banco degli imputati non eventuali singoli locali, ma quella tipologia di cibo in quanto tale.

In maniera molto sinistra “mal di sushi” suona simile al “mal francese” o al “mal napoletano”, con i quali veniva chiamata la sifilide dopo la sua comparsa alla fine del XV secolo. In quel caso la definizione popolare faceva riferimento al luogo dal quale il contagio era partito e non alle sue cause scientificamente verificate, finendo per identificare il luogo con la causa. La sifilide era “colpa” dei napoletani (o dei francesi), così come i disturbi di chi si è imbattuto in un prodotto conservato male sono colpa del sushi in quanto tale. Ogni volta che la cronaca registrava uno di questi casi, l’equazione, veicolata anche dalle immagini a corredo della notizia, era automatica: mangiare sushi è pericoloso. E, si badi bene, il problema non si pone per i prodotti crudi in generale, ma proprio per il sushi. È proprio in questo contesto che la scienza viene piegata alla volontà di fornire informazioni distorte. L’individuazione dell’Anisakis è funzionale alla creazione di una paura specifica e apparentemente scientificamente giustificata per la cucina giapponese

Alimentare paura

Yomiuri

In questo contesto, risulta abbastanza grottesco lo stupore di quegli stessi organi di informazione, che alimentano le paure, quando scoprono che si stanno diffondendo delle vere e proprie psicosi collettive. E nemmeno può sorprendere che all’inizio dell’epidemia di Covid-19, i social network abbiano spesso indicato proprio i ristoranti di sushi come principali vettori del virus, sorvolando sul fatto che il sushi è giapponese e non cinese, ma tale campagna di smaccata disinformazione evidentemente ha fatto perno su un’opinione pubblica già disposta a credere a questa fake news: la mancanza di filtri nei social network nei giorni della pandemia, offuscava a tal punto la vista delle persone, che non c’era alcuna consapevolezza che l’associazione del sushi, cucina tipica giapponese, al coronavirus, che arriva dalla Cina, fosse del tutto priva di senso.

Alla fin fine, però, la diffusione del sushi sul mercato italiano e delle psicosi più o meno spontanee che ne sono derivate dimostrano come i meccanismi sociali funzionano da sempre nello stesso modo. Ma d’altro canto dimostrano anche come l’apprezzamento e l’accettazione di un cibo nuovo non dipendono dalla fame generalizzata; il sushi è penetrato nei consumi alimentari italiani perché più di tanti altri tipi di cucina, è adatto alle nuove modalità di distribuzione e di fruizione.

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