Sono tanti i libri dedicati all’idea di selvaggio che iniziano con uno sguardo rivolto all’indietro, all’infanzia dell’autore: altri tempi, quando ancora i merli acquaioli o gli scoiattoli rossi o i rospi calamita scorrazzavano nelle valli e nelle foreste, e il genere umano non aveva iniziato la sua vorticosa discesa verso lo scarico della grande piscina universale.

Sono tentato anch’io di raccontare dei ricci che da bambino scorgevo facilmente sul prato di casa la mattina, ricci che adesso nel Regno Unito sono circa un milione, contro i 36 milioni del 1961.

Anche io, come molti della mia generazione, non mi capacito di quanto è andato perso, di quanto poco ne abbiamo guadagnato, e di quanto in fretta abbiamo abbracciato un mondo in larga parte ripulito da ogni relazione con ciò che è selvaggio. E tuttavia, come tanti altri, non voglio solo piangere il selvaggio perduto ma voglio riscoprirlo, seguirne le tracce dal lì al qui, trovare il mio modo di attraversarlo e di averci a che fare, incamminandomi nei boschi, per le strade, e in altri luoghi meno ovvi ma profondamente e oscuramente selvaggi.

Concezioni obsolete

(CTK via AP Images)

Non dobbiamo però immaginare che il selvaggio sia lì pronto a farsi scoprire o riscoprire da noi: dovremmo resistere alla tentazione di credere che un tempo esisteva e adesso non esiste più, e aggirare quelle insidiose logiche binarie che lo oppongono a quel che è moderno, civilizzato, colto e coltivato, reale. Anche se nel nostro immaginario il selvaggio è ancorato alla natura (o a una sua specifica declinazione), non esiste solo dentro i limiti del mondo naturale: ha una vita che si dirama nell’arte e nella politica, nella teoria, nel desiderio.

Le nostre concezioni del selvaggio derivano ancora in gran parte dai naturalisti dell’Ottocento e del primo Novecento come Thoreau («Quanto è vicino al bene ciò che è selvaggio») o John Muir («Non ho mai visto un albero infelice»), e a dispetto di tante rigorose analisi su come le contrapposizioni fra domestico/addomesticato/civilizzato e straniero/selvaggio/barbaro siano un prodotto del colonialismo, letteratura e cinema vi aderiscono senza intaccare i loro retaggi imperialisti, e continuano ad avvalorare un’idea romantica di ritorno a un qualche paesaggio mistico e incontaminato (come in Into the Wild di Jon Krakauer), o di scoperta del nostro vero sé nell'essenzialità della natura (come in Wild di Cheryl Strayed). 

Il mio libro ci mette in guardia dall’investire in un selvaggio collocato in un passato lontano che non tornerà più, o in un futuro in cui la scienza e la conservazione ne consentiranno il recupero. Vedo invece il selvaggio come un’epistemologia, un campo di formulazioni alternative che mettono in questione quell’impulso a “fare ordine” tipico della modernità, e come una convergenza di interessi anticoloniali, anticapitalisti e queer.

Cielo opprimente

Sergio Pitamitz/AP

Ma ora devo, per una volta, obbedire alle leggi del genere, e raccontare uno degli aneddoti che mi hanno condotto verso questa idea di selvaggio. Anche se ormai si sa che a volte accetto inviti a conferenze in posti piuttosto remoti (uso qui remoto in senso relativo, relativo a dove risiedevo io in quel momento) solo per potere vedere animali in via d’estinzione o anche soltanto strani, come i pinguini occhigialli in Nuova Zelanda, i quetzal in Costa Rica o i koala a Brisbane, non era una di quelle occasioni: avevo accettato, forse stupidamente, di parlare a una conferenza sulle «sessualità remote» in uno dei luoghi davvero remoti e selvaggi d’Europa – le isole Faroe – solo per vedere un posto che altrimenti non avrei mai visitato. (...) 

Era un periodo difficile della mia vita, e il viaggio si caricava di significati simbolici: io e la mia partner ci stavamo lasciando, e via via che il nostro lungo e complicato itinerario dalla California a quelle isole molto a nord della Scozia subiva, tratto dopo tratto, ritardi e cancellazioni, abbiamo cominciato a sentirci come comparse in una vicenda epica di resistenza e avversità.

A nessuno dei due era chiaro perché ci ostinassimo nei nostri sforzi per raggiungere le isole, ma finalmente siamo sbarcati da un piccolo aereo nel desolato aeroporto di Tórshavn, la capitale (anche se capitale è una parola piuttosto altisonante per quel piccolo lembo di terra). Quasi subito abbiamo cominciato a provare un misto di agorafobia e claustrofobia.

Le isole erano troppo piccole, il cielo troppo grande, e non c’era davvero nessun angolo in cui potersi riparare dal maltempo e dalla vastità dello spazio, dalla luce, dal buio, dall’acqua, dalla tristezza e da ogni genere di lontananza. Da ogni punto si vedeva l'oceano, grigio e minaccioso, e la luce estiva era, nella sua persistenza, quasi opprimente. Ci siamo rintanati nel nostro hotel, impedendo l’accesso a quella luce e a quella vista, sperando di dormire.

Alla ricerca dei puffin

Irena Mora / VWPics

Il giorno dopo, alla fine della conferenza, abbiamo accettato di partecipare a una gita in barca in cerca dei pulcinella di mare – i celebri puffin per cui le Faroe sono famose. 

Sapevamo che erano lì da qualche parte, perché Tórshavn ce ne ricordava costantemente la presenza nella forma di tristi esemplari imbalsamati che avevamo già rinominato Stuffed Puffs, come la marca di marshmallows ripieni. I pulcinella erano anche, cosa forse ancora più triste, sul menù di molti ristoranti come specialità locale; gli Stuffed Puffs ci fissavano nei bar, in hotel, decoravano poster pubblicitari, cartoline, brochure per turisti. 

Nonostante la loro inquietante onnipresenza, o forse proprio per quella ragione, siamo partiti con entusiasmo alla ricerca della loro versione vivente. Mentre costeggiavamo delle piccole isole, il capitano, che era anche la nostra guida, raccontava che alcune erano abitato solo da due persone – due esemplari da accoppiamento, suppongo – che trovavano quella solitudine inspiegabilmente (per noi) attraente.

Arrivati finalmente a un tratto di scogliera rocciosa, il capitano ci ha spiegato che per far pascolare le pecore in quell’area dovevano trasportarle su e giù per via aerea. Mi sono sforzato di immaginare un elicottero che scaricava delle pecore sbigottite su quelle strette strisce di verde. Ma l’attrazione principale della scogliere non era la curiosa pecora che di tanto in tanto vi rimaneva abbandonata: erano i pulcinella che ogni anno deponevano lì le uova, per poi guardare i loro pulcini sgusciare fuori, crescere e allontanarsi a sfidare i predatori. Il capitano ci ha portato in tutti i posti in cui era certo si trovassero i pulcinella, mentre noi perlustravamo con gli occhi le scogliere in cerca di qualche segno di vita, ignorando la marea che si alzava.

Cimeli perduti

Sergio Pitamitz/AP

Dopo ore di inutile ricerca, abbiamo dovuto ammettere la sconfitta e riconoscere che si era fatto tardi, che la marea era alta, il tempo tremendo. Il capitano, sconfortato, ha farfugliato qualcosa sul fatto che la stagione dell’accoppiamento era quasi finita, ma uno dei marinai ha commentato che non era solo il fatto che i pulcinella non c'erano: sembrava che non ci fossero mai stati. Non so se per l'età, o per la separazione, o per il posto così remoto, ma l’assenza dei puffin mi ha provocato una tristezza indescrivibile, e da allora questi uccelli sono per me il simbolo di qualcosa di perduto, di un’opportunità che non ho colto, di un tempo che non ritornerà.

Senza gli uccelli vivi, i pulcinella imbalsamati smettevano di essere qualcosa che ricordava la presenza di una specie vivente che popolava la regione, e diventavano invece un riferimento malinconico e vagamente patetico a una specie che scompare. Il selvaggio, come ho capito troppo tardi, non è un posto in cui si può andare, un luogo che si può visitare; non si può decretarne l’esistenza, né lasciarselo alle spalle, né perderlo o trovarlo. Il selvaggio dà forma alla nostra esperienza del tempo e dello spazio, del passato e del presente, e ci fa cenno da un futuro che, lo sappiamo, non arriverà mai. 

Dopo tutto, può darsi che anche il soggetto umano della filosofia e dell’amore romantico in Europa e in America, come i pulcinella impagliati, non sia nient’altro che il cimelio di un tempo ormai lontano, che abita fra le rovine di un mondo che una volta ci sembrava di poter intravedere, e che ha di fronte a sé solo l’oblio: non tanto un angelo della storia, ma un fantasma che danza al proprio funerale.


Questo articolo è un estratto dalla prefazione di Wild Things, di Jack Halberstam, in uscita per minimum fax nel 2023. La traduzione è di Goffedo Polizzi

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