La parola chiave sembrerebbe essere: “cancro”. O potrebbero essere due: “malattia terminale”. O, ancora, una sola che le riassume tutte e tre: “morte”.
Helga Flatland la fa entrare in scena immediatamente, prima ancora che il lettore abbia avuto il tempo di mettersi comodo, scegliendo per l’esergo del suo romanzo Fino alla fine pubblicato da Fazi qualche verso della poesia La piazza selvaggia del poeta svedese, premio Nobel, Tomas Tranströmer: «In mezzo alla vita accade che la morte venga a prendere le misure dell’uomo». Il lettore è avvisato. 
E se fosse stato distratto, se avesse girato le pagine per cominciare dall’incipit, eccolo servito: «Le trancio il collo con un colpo d’accetta». Il collo in questione è di una gallina e non è che abbia meno paura di un essere umano a lasciarci le penne (infatti, qualche riga più sotto, si legge di una sua simile che, uscita dal pollaio, «sembra sconvolta, forse confusa, come se non riuscisse a credere a ciò a cui ha appena assistito»).

Eppure, ciò di cui parla davvero questo romanzo – suddiviso in capitoli in cui si alternano la voce narrante di una madre 67enne che ha appena saputo di avere un tumore e di sua figlia, 45 anni, medico – è il perdono. 

Richieste ingombranti

Troviamo il sostantivo per la prima volta a pagina 36, quando la madre confessa di non essere in grado di chiedere alla figlia di perdonarla nonostante sia convinta che questa sua incapacità renda i ricordi d’infanzia della figlia più brutti a ogni occasione perduta. Anche solo per evitare che accada, quindi, dovrebbe provarci. Lo sa, ma non riesce a farlo.

E con il trascorrere dei mesi, gli ultimi nella vita di Anne, la madre, le aspettative di Sigrid, la figlia, diventano via via più ingombranti: «A Pasqua ho dovuto voltarle le spalle ogni santo giorno, schivarla, tenermi a distanza, per impedirmi di metterla all’angolo e pretendere che sentisse il bisogno di ammettere le sue colpe, chiedere perdono».

L’ultima volta in cui nel romanzo (tradotto da Alessandro Storti) compare il sostantivo “perdono” è successo qualcosa che non va svelato qui. È appena prima che si trovi scritto, per un’unica volta, il verbo, cioè l’azione, “perdonare”.
A quel punto, mancano soltanto poche pagine alla fine, pochi respiri. Lo sanno ormai tutti i personaggi che abbiamo conosciuto tra la capitale, Oslo (dove vive la figlia ) e il paese di campagna (dove vive la madre) e che formano la famiglia: il nonno, il figlio, la nipote e il nipotino, i loro due padri.

Si può ipotizzare che l’abbia capito anche il vecchio, e quasi sordo, Kant, il cane (della nonna che, quando ne ha ancora la forza, si chiede «che ne sarà di lui, della fattoria, del trattore, dell’auto, delle tendine, delle tovaglie, delle piante in vaso, di tutto ciò che Sigrid e Magnus di sicuro non vorranno?»). Lo sa anche il lettore, che ha avuto tempo di prepararsi fin dal titolo, fin dall’esergo, fin dall’incipit. A differenza, per esempio, della figlia o della nipote.

Rabbia e intrecci

Dopodiché, come aveva suggerito il titolo, il romanzo si chiude e non sapremo come ciascuno dei personaggi la prenderà e se la figlia e l’attuale compagno, padre del nipotino, resteranno insieme. E se la figlia smetterà di essere ossessionata dal suo ex che l’ha abbandonata giovanissima e incinta e piena di rabbia verso la madre e che gioca ancora con la sua mente dicendole che «tanto i ricordi non sono comunque veritieri».

La parola “ricordi” entra spesso anche nelle pagine in cui la voce narrante è quella della madre in un modo che irriterebbe la figlia, se potesse sentirla. Invece quelle parole sono solo per il lettore, che può fermarsi a rifletterci: «È significativo che molti suoi ricordi siano riproduzioni distorte dei miei». Una madre versus una figlia. I ricordi di una madre versus i ricordi di una figlia. Gli episodi sono i medesimi, i ricordi che se ne ha, invece, differiscono.

Relazioni

Qualche mese fa, ho realizzato per Rai Play un podcast, Mamma mia, in cui ho unito riflessioni personali e quelle di centinaia di donne che mi hanno scritto di come è cambiata, nel tempo, la relazione con la loro madre, e altre che ho trovato in libri scritti da donne.

Ho chiesto poi aiuto a un’amica e psicoterapeuta, Monica Burato, con cui ho capito perché, invecchiando, e in particolare dopo aver perso la madre, alle figlie capita di comprendere chi le ha messe al mondo come mai prima. E come, poi, a molte di quelle figlie sembra allora di assomigliare alla donna con cui erano state in conflitto. È possibile solo a una condizione: «La vera separazione dalla madre che accade con il perdono». 

Nel romanzo di Flatland, Sigrid, la figlia, che ha ormai superato i quarant’anni, non ha ancora compiuto quella separazione. Anne, la madre, lo sa. E prova a fare la parte che la figlia si aspetta da lei. Quando non resta quasi più tempo, compila insieme al medico «il programma individuale» per il periodo che intercorre fra quel giorno e la sua morte. (E qui al lettore potrebbe venire una gran curiosità di conoscere un medico simile).
È una lista dei suoi «sogni e obiettivi», delle sue «risorse», delle «necessità» e dei «desideri» dei suoi cari. E, intanto, la figlia cerca di concentrarsi, come le ha suggerito il compagno, sulle necessità della madre e sul tempo che le resta da vivere, cose che «contano più» della propria «brama di una resa dei conti». È questo a commuovere il lettore: il movimento costante della madre e della figlia verso il punto di vista dell’altra, pur nell’imperfezione di ciascuna, tra orgoglio, passi indietro, parole che non riescono a essere dette.

Attraverso la figlia, che è medico, Flatland ci dice che capita innumerevoli volte che i pazienti «nell’affrontare un corpo» che li tradisce e «una condanna a morte» che pende su di loro «gradualmente» riducono «il campo visivo fino a contemplare soltanto sé stessi ed entrare in una fase terminale fatta di autoassorbimento» perché «l’empatia è riservata a chi ha un sovrappiù di energie per permettersela, ossia alle persone sane».

Perciò lo sforzo di Anne è toccante benché non sia stata, forse, una buona madre. E sebbene non le riesca di chiedere scusa, vorrebbe almeno convincere la figlia di essere consapevole che la sua versione della loro relazione è «tanto vera, tanto importante quanto la mia».

Queste parole arrivano poche pagine dopo che le voci di madre e figlia si sono quasi intrecciate: le due donne sembrano a questo punto così vicine a vedersi per davvero ciascuna con gli occhi dell’altra che l’autrice sospende un capitolo, chiudendolo con i due punti - «“Mamma, hai interrotto la chemioterapia?”, le chiedo. Lei interrompe anche questa domanda, dicendo:» - e aprendo il capitolo successivo, alla pagina seguente, con l’urgenza di parole che spiegano l’interruzione: «“Senti, Sigrid, devo chiederti un favore”, dico».

Sarà un momento di verità nella relazione: la fragilità della madre, la fragilità di ogni vita umana, consegnata alla figlia, in quanto medico, certo, ma soprattutto in quanto donna che sta per accoglierne l’eredità.


Fino alla fine (Fazi 2023, pp. 288, euro 18,50) è un libro di Helga Flatland

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