Ricordo come fosse ieri il giorno in cui la maestra Anna ci portò in cortile davanti alla grande targa di bronzo. Ci dispose a semicerchio: a un’estremità lei, all’altra il maestro di ginnastica Tullio, con cui spesso condivideva parte delle lezioni, perché lo sport, diceva, fa bene al fisico e apre la mente. Ci invitò a unirci tenendoci per mano.

Lesse il nome sulla targa, “Martin Luther King” e ci spiegò che la nostra scuola era dedicata a un uomo buono il cui sogno era che tutti gli abitanti della terra fossero capaci di tenersi per mano, così come stavamo facendo noi in quel momento.

Non ricordo altro di quella spiegazione semplice di concetti complessi ma risuona ancora forte nella mia memoria, la conclusione: «Impegnatevi a fondo per realizzare i vostri sogni».

Per una meravigliosa coincidenza nel 1996 ai Giochi olimpici di Atlanta, proprio là dove Martin Luther King era nato, taglio il traguardo per prima spingendo sui pedali col busto disteso in avanti in quella che venne definita la migliore posizione aerodinamica mai vista.

Nella commozione travolgente, tra tante emozioni indistinte, un brivido profondo, nitido, mi attraversa e ripercorro il sogno decollato nel cortile della scuola elementare e atterrato, vent’anni più tardi, sul gradino più alto del podio a 5 cerchi. Realizzo che sdraiata sulla bici, in quell’assetto in cui pedalare sembrava impossibile, a mandarmi avanti c’era la voglia di vincere ma anche il desiderio di dimostrare che, invece, in quell’assetto, sarebbe stato possibile pedalare più veloce che mai.

Grandi uomini e donne hanno parlato del potere dei sogni come contributo in termini di impegno, speranze, promesse, percorsi: piccoli o grandi che siano, personali o collettivi, tutti hanno valore, se non altro per l’ispirazione scatenata da chi li realizza.

Inventare e sognare possono diventare sinonimi quando l’aspirazione a un obiettivo non si arresta con l’esplorazione delle vie note e prosegue in quel territorio dove nessuno ancora, dove nessuno mai. Questo intendeva Julio Velasco quando pronunciò una delle sue frasi più celebri: «I vincenti trovano soluzioni. I perdenti cercano alibi».

Julio è l’allenatore che ha cambiato il mondo della pallavolo (2 ori mondiali, 3 europei, 5 titoli della World League e un argento alle Olimpiadi) ma ha fama di oratore pari o forse maggiore a quella di tecnico. La sua esperienza ci conferma che i vincenti sono coloro che si adoperano per realizzare la propria visione e si impegnano per trovare e provare tutte le soluzioni alle sfide che li separano dalla realizzazione del sogno. E se le vie conosciute non funzionano, ne inventano di nuove.

Noi e le innovazioni

Lo sport ci offre esempi straordinari di innovazioni che hanno trasformato una presunta debolezza personale in un’opportunità di miglioramento e di ridefinizione dei limiti. Innovazioni da intendersi come diverse interpretazioni della tecnica di esecuzione del gesto e non come supporti tecnologici. Se i secondi sono sempre più frequenti (dalle scarpe della maratona, ai costumi dei nuotatori, passando dalle biciclette dei ciclisti) i primi sono sempre più rari ma non per questo meno discussi.

Se un atleta propone una variante all’esecuzione tecnica di un gesto rompendo con la tradizione, il mondo sportivo si divide e spesso oppone resistenza. Quando Giuseppe Merlo, grande giocatore italiano degli anni Cinquanta (a cui si attribuisce l’innovazione) introdusse il rovescio a due mani, gli alti esponenti dell’ortodossia tennistica lo accolsero come un colpo blasfemo. Lui voleva semplicemente inseguire il suo sogno e diventare un grande atleta ma per farlo doveva sopperire con due mani a quello che sentiva di non riuscire a fare con una, ovvero reclutare sufficiente forza per un migliore controllo di palla. Così provò ad adattare alla pesante racchetta un tipo di impugnatura che aveva appreso da un’altra sua passione, il tennistavolo.

La scelta si rivelò subito vincente e, nonostante il cambiamento della biomeccanica del gesto, l’uso delle due mani smise di essere considerato disonorevole quando fu evidente la migliore precisione, la maggiore potenza e la conseguente spettacolarità.

Oggi l’eredità di quell’ardire dimostra con l’evidenza conquistata sul campo che la tradizione andava rotta, affinché l’evoluzione del gioco potesse continuare. Le speciali e sofisticate classifiche Atp ci dicono che tra i primi dieci tennisti al mondo, nessuno più gioca il rovescio a una mano.

Qualcuno potrà pure sentirne nostalgia ma dovrà esprimerla con la stessa rassegnazione con cui qualcun altro potrà sentire la mancanza dello stile ventrale nel salto in alto: un gesto bello ma poco efficace.

Il salto in alto

Dick Fosbury non aveva abbastanza forza per affrontare l’asticella frontalmente, a bassa velocità, per poi avvolgerla bruscamente col corpo. Saltare gli piaceva da morire, la sua elevazione era ottima ma quella tecnica proprio non gli si addiceva.

Cosi un po’ per caso e un po’ no, provò ad applicare le leggi della fisica al salto per vedere cosa sarebbe successo con una rincorsa curvilinea che permettesse al baricentro di sfruttare la forza centrifuga nel momento dello stacco. E ciò che accade fu un miracolo di intuizione e rendimento.

Anche Fosbury venne accolto con risate e scetticismo ma chi vince nello sport ha sempre ragione e nel 1968, ai Giochi olimpici di Città del Messico, lui vinse. Ormai da tempo, nessuno specialista usa più la tecnica ventrale. Anche la morfologia dei saltatori è cambiata: i fisici sono meno potenti e più elastici, meno muscolosi e più longilinei: oggi infatti qualche ventralista si può trovare ancora tra i decatleti, più massicci e pesanti che cercano di dare il loro meglio in una disciplina a cui non sono particolarmente votati.

Per questa ragione la nuova tecnica ha dato particolare impulso alle saltatrici donne tra cui Sara Simeoni, la prima capace di superare i due metri. Se il salto ventrale può impressionare come ottimo esercizio di potenza, la tecnica Fosbury appassiona per la bellezza, la leggerezza e la facilità di cui si veste lo sforzo. Ciò che sembrava ridicolo è diventato un capolavoro di performance e estetica.

Un atto di inclusione

Ogni volta che un atleta inventa una variante all’esecuzione tecnica del gesto, di fatto, amplia il ventaglio di possibilità tra le quali, fisicità diverse, possono provare ad esprimere il proprio potenziale: in questo senso può considerarsi un contributo all’inclusione e alla espressione del talento. Prima di tutto però amplia il repertorio di esempi di chi non si è rassegnato a restare imbrigliato in schemi precostituiti.

Ognuna delle discipline sportive avrebbe la sua storia, il suo susseguirsi di stagioni, aperte da qualche innovatore o innovatrice che ha rotto la tradizione per iniziare un nuovo ciclo. Gli attori principali di queste belle fiabe a lieto fine, pur se diverse, hanno come protagonisti gli stessi attori: il sogno, l’impegno, la realizzazione.

Il messaggio che lanciano è più preciso di un rovescio a due mani e fa volare più in alto di Fosbury, parla alle aspirazioni, al desiderio di tutti come a un sentimento che guida la nostra vita per chiederle qualcosa in più su chi siamo e ricordarci, come diceva Mandela, che un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso.

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