Sto chattando su WhatsApp con un’amica, parliamo di lavoro. A un certo punto, in risposta a quello che dice, scrivo una battuta. Emma non la coglie, anzi la fraintende e ci rimane addirittura un po’ male. Il giorno dopo corro a spiegarmi: «Era una battuta, non si capiva?». «No, non si capiva. Non c’era nemmeno una faccina». Rimango di sasso perché Emma è intelligente, colta, arguta, di solito sono io che fatico a starle dietro. Ci vorrà qualche giorno per archiviare del tutto la questione.

Piccole crisi che si consumano quotidianamente nell’intimità delle chat e che, nei casi più sfortunati, lasciano strascichi. Certo, quando chattiamo manca il tono, non vediamo il viso: il sostegno del linguaggio non verbale basterebbe a spazzare via tante delle ambiguità che ci lasciano frustrati. Ma quello che Emma reclamava, ciò che le è mancato in quell’occasione, era qualcosa di più preciso: l’uso iconico del linguaggio. Avrebbe preferito, visto il contesto in cui avveniva il nostro scambio, che mettessi un emoji.

Comunicazione emotiva

Il linguaggio per immagini è potenzialmente una ricchezza, nessuno può dubitarne. Tutto ciò che si inserisce in un sistema per apportare nuova linfa non può che essere un valore aggiunto. I pregi del linguaggio iconico sono stati variamente studiati e, per limitarci a quelli principali, basterà ricordare che un’emoticon (o un emoji, ai fini di questo discorso li considero sinonimi) può sostenere affermazioni sfumate o ambigue; può dare o togliere intensità a una proposizione; può assumere una funzione ironica contraddicendo, come mi chiedeva Emma, un’affermazione solo apparentemente seria; e può naturalmente aggiungere un sentimento (“domani parto” + faccina con gli occhi a cuore preannuncia un’esperienza gioiosa).

Non solo: a volte un’immagine è più immediata di un enunciato, dunque l’emoji di un cuore rosso per dire “ti voglio bene” può essere più efficace di una dichiarazione, oltre a sollevarci da un’eventuale fatica emotiva. Tutto ciò ha un importante riverbero sulla nostra psiche perché la comunicazione per emoticon – lo dichiara la parola stessa, che sintetizza emotion e icon – è puramente emozionale. Dell’uso pervasivo di un linguaggio all’apparenza così innocuo, colorato, facile, andrebbero messe meglio a fuoco le conseguenze, se non altro per capirne il potere e la forza. Non sono sicuro, infatti, che per la lingua si tratti esclusivamente di un valore aggiunto, perché le faccine non convivono pacificamente con le parole.

L’emoticon induce a sintetizzare al massimo grado uno stato d’animo o un’intenzione.

L’immagine che sintetizza è un pittogramma, ossia un simbolo, una “maschera” uguale per me e per tutti, e quindi non denota il mio particolare stato emotivo, ma cristallizza la mia emozione in un’emozione uguale per tutti.

L’allegria, la tristezza, la gioia, la fatica assumono sembianze universali, mentre dentro di noi hanno cause e aspetti unici. Dunque emerge anzitutto il rischio di omologazione dell’interiorità.

È un rischio di cui almeno in qualche misura siamo consapevoli, ma che continuiamo a correre perché il guadagno sembra maggiore della perdita: con l’emoji mi libero dallo sforzo di elaborare un pensiero e di dare una forma personale al mio stato d’animo, accontentandomi in cambio di condensarlo in uno stereotipo che, essendo lo stesso per tutti, non è interpretabile, ma possiede un significato rigido e monolitico. È una retrocessione linguistica al simbolo.

Le cause sono risapute: la comunicazione digitale e del web spinge a risparmiare parole – dunque pensiero e spirito critico – non in nome di un’ecologia della parola stessa, ma per assecondare una pigrizia che conforma e appiattisce la nostra sfera emozionale.

Si sa che sui social e nelle chat, ma avveniva già al tempo degli sms, scrivere correttamente non ha importanza. Importa solamente farsi capire e farlo più in fretta possibile, perciò la “x” vale “per”, “ttt” vale “tutti” o “tutte”. La grammatica, e più ingenerale la scrittura formalmente corretta, l’abbiamo relegata al tema in classe e a poche altre occasioni ufficiali della vita adulta. Questo accade anche perché le emoticon soddisfano il nostro bisogno di comunicare velocemente. Si adattano perfettamente alla regola implicita del web che decreta l’insuccesso del linguaggio scritto e articolato, mentre premia chi ne fa a meno, come dimostrano le piattaforme social più di successo, Instagram e TikTok.

Ci telefoniamo meno – dunque si dialoga meno – e ci scriviamo sempre meno, surrogando le nostre parole con un’abbondante dose di icone. Per educare qualcuno alla scrittura – come è chiamata ancora a fare la scuola, per esempio – ci vorranno quindi più tempo e più energie, perché questa maniera di comunicare non è avvertita come necessaria e, di conseguenza, perde di valore nella società che abitiamo oggi.

In un contesto come una chat, scrivere “bene” resta il baluardo di chi desidera personalizzare la maschera preconfezionata che tutti abbiamo a disposizione. La scrittura, allora, rimane sì un’attività praticata dall’homo videns, bersagliato da una quantità abnorme di immagini in rapida successione e non sempre facili da selezionare, ma solo da quell’homo videns che non rinuncia a essere ancora sapiens, il cui distintivo è appunto il linguaggio verbale.

Sorriso sui compiti

La fatica e la lentezza che caratterizzano la scrittura la rendono uno strumento poco seducente e poco alla moda, una pratica tanto nobile e antica quanto sempre più esotica, a cui ricorre chi persevera a voler dare complessità a ciò che esprime.

Ecco perché il rischio più infido di un linguaggio iper iconico, ancor più che la pigrizia, è il depotenziamento della parola: se lo stato d’animo che manifesto deve essere ratificato da un’immagine, se l’umorismo va svelato da una faccina di tenore opposto al testo; se con le sole parole la battuta non si capisce, allora il linguaggio verbale finisce sotto processo perché non riesce più ad adeguarsi alle necessità attuali della comunicazione.

Finché lo stato dell’arte resterà questo e non si avvertirà l’urgenza di investire sull’educazione al dialogo, alla scrittura e alla lettura, il linguaggio iconico non potrà arricchire le parole perché le aggira e sostituisce. La sfiducia nella stessa parola, d’altronde, potrebbe accentuare la pigrizia del pensiero e la banalizzazione della nostra sfera emotiva.

Mentre scrivevo queste righe è tornato mio figlio da scuola, fa la prima elementare. Tutto contento mi ha mostrato il quaderno di italiano: il compito sulle vocali è andato bene, la maestra gli ha assegnato una faccina sorridente.

Scrivere che ha risposto esattamente 8 volte su 10 è ormai troppo freddo e normativo; scrivere un commento al compito è un lavoro lungo, che andrebbe letto e spiegato al bambino, e così, anche in questo caso, la parola adulta cede il passo all’immagine. Mi chiedo se è giusto che chi ha sbagliato l’esercizio riceva una faccina triste e se i bambini che hanno azzeccato le risposte, guardando il compito, abbiano fatto lo stesso sorriso di quello disegnato.
 

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