Compiuti i diciott'anni, ero uscito dai testimoni di Geova e mi ero messo a fare il punkettone alla maniera appenninica rurale: andavo in giro con le punte in testa, dei bagagli di dieci centimetri duri di gel e tutti irregolari e fatti male, anche perché mia madre s'era rifiutata di continuare a tagliarmi i capelli, dato lo scempio che ne volevo fare, e allora me li tagliavo da solo, senza neanche usare lo specchio, spelandomi nel collo come un disgraziato.

Quelli che erano al bar mentre aspettavano la corriera dicevano che il giorno in cui erano piovuti dei maccheroni mi sarei trovato avvantaggiato. Anche davanti a mio nonno facevano questa battuta, e lui si girava dall'altra parte per non vedermi; mi aveva tolto il saluto; a un certo punto, mi aveva mandato a dire che mi avrebbe dato centomila lire se ritornavo normale.

Le cose erano cambiate da un po' prima: a quindici anni avevo ritrovato, in stazione a Sassuolo, il mio migliore amico d'infanzia, che al sabato tornava su dal collegio, e dall'alto dei suoi sedici, disillisi e cinici, col suo tabacco da rollare e la borsa di tela verde, col suo Dostoevskij nella tasca, mi aveva passato, in un'estate, tutta la musica che poi avrei ascoltato per la vita. Musica satanica, per gli anziani della Congregazione, coi quali finivo a ripassare brani biblici non perché avessi fumato o bevuto da ubriacarmi, o fatto cose con una ragazza, figuriamoci, ma per questioni musicali e di principio.

Tra due mondi

In montagna, la domenica mattina, incravattato e con le scarpe scomode, seguivo mia madre per le strade dei paesi a suonare i campanelli con la Torre di Guardia e Svegliatevi! («Sarebbe ora», diceva mio padre in dialetto). Ma nelle cuffie, nel venire su in corriera, avevo Antenna Uno Rock Station, da Fiorano Modenese: l'unica radio che trasmettesse i Coil, Diamanda Galas o gli Einstürzende Neubauten a ora di pranzo.

Era sul 104.7 che avevo ascoltato Emilia Paranoica dei Cccp le prime volte; perciò, quando tornando su perdevo il cambio a Sassuolo, e al pomeriggio andavo ad aspettare la corriera successiva al Terminal, il bar della stazione, e mi mettevo a leggere in mezzo ai tossici che giocavano ai giochini, sapevo chi era quel tipo col giubbino di jeans messo male, i pantaloni attillati sulle gambe magre, la bandana e la toppa dei Guns.

Chiedi a Settantasette se non sai come si fa : nel tempo sospeso di un pomeriggio grigio per Sassuolo, era come camminare per New York insieme a un personaggio di Lou Reed: Settantasette andava in giro, e io gli andavo dietro, e chiacchieravamo non lo so di cosa, più che altro ascoltavo le sue storie come se arrivassero dal rubinetto primigenio del maledettismo.

Quando poi cominciai a farmi i capelli a quel modo, e lo beccai al Terminal (e come ogni altra volta mi scroccò della moneta), mi disse tutto carico: «Io avevo i capelli come te!»

Non ho foto mie di quegli anni. Ho sempre mal sopportato farmi fotografare. Se voglio rivedere i miei vent'anni, devo andare ad aprire il volume di Materiale Resistente , Correggio, 1995, cinquantesimo della Liberazione: dentro, in bianco e nero, c'è la foto di un bambino di vent'anni assortito, di profilo, con degli spungioni in testa, con gli occhi da miope e gli occhiali comperati dalla mamma, il Montgomery di alpaca cucito dalla mamma, una barba stentata e improbabile (rossa, se la foto fosse a colori) in attesa trepidante del gruppo che gli riempie la vita e le giornate.

Non saprebbe cavarsela neanche a far su una sigaretta da solo, né ad aprire una birra usando l'accendino, ma è tutto preso nel suo estremismo sentimentale adolescente, da tutto o niente , da questo è oro e quella invece è tutta merda . Ha messo in piedi un gruppo, con due amici, e ovviamente crede di avere le idee chiare più di tutti. Non vuole belle parole speranzose, vuole la pesantezza e l'instabilità, e sentirsi tirare su da terra: aspetta i Csi, e quel giorno la pioggia ha rischiato di non farglieli vedere. Ma poi arrivano, altroché.

Da quando gli ex Cccp erano diventati i Csi, finalmente potevo recuperare la sfortuna anagrafica e andarli a vedere in concerto: li ho seguiti ovunque, qua e là per l'Emilia, prima scroccando passaggi e poi con la Panda dei miei, se me la prestavano – nei locali, nelle piazze e nei teatri, e a tutte le feste dell'Unità che Dio mandava in terra.

Non c'era niente di più forte per l'adolescente che ero: ed era qui, presente.

I Cccp erano stati romantici, (sì, romantici), definitivi; lirici, rabdomantici, secchi come spari – canzoni di carne e di materiali duri che mi davano senso d'essere compreso, esaltazione a volte, rabbia e solitudine altre volte, poesia e commozione. I Csi in più erano solenni, carismatici sul palco come solo i Bad Seeds e gli Swans avrei visto essere. Tante altre cose che erano, allora non le capivo, magari le sentivo: ma quello che ho saputo fin da subito è stato di trovarmi di fronte a una musica adulta, che sarebbe cresciuto con me e che avrebbe mantenuto intera la sua forza, e infatti continua a parlarmi da una vita, e a questo punto non penso che smetterà mai, mano a mano che invecchio.

Astenersi perditempo. Mi davano e mi danno la certezza che si può fare, una musica adulta, mentre il (pop) rock è troppo spesso quella forma d'arte in cui dei cinquantenni s'industriano a confezionare musica per ragazzini di cui non sembrano avere alcun rispetto.

A Reggio, Parma, Modena, Sassuolo...

Qui in Emilia, i tanto fraintesi anni Novanta hanno davvero avuto qualcosa di speciale: è sembrato, per un po' di anni, che la storia del rock passasse dai posti che avevamo dietro casa. A Bologna c'erano i Massimo Volume, sul nostro Appennino i Csi: cose che per dignità, qualità musicale, potenza d'immaginario, erano al pari di quelle che potevi ascoltare per davvero , senza dover premettere la solita frasetta: “Beh, dai, per essere italiani...” – No no: i Csi, così come i Massimo Volume, potevo e posso ascoltarli allo stesso modo in cui ascolto i Velvet Underground.

Erano qui, presenti . Ma soprattutto – ed è questo che più di ogni cosa mi ha segnato e cambiato la vita – erano appenninici . Mi ricordo tutto il tempo affascinato a guardare la mappa stampata su Compagni, cittadini, fratelli, partigiani : il monte Cusna lassù in cima, la Pietra di Bismantova, Toano e Carpineti – il paese di mio padre e quello dei miei nonni – Montefiorino, dove stavo... e poi Villa Minozzo, da dove venivano gli Üstmamò, appena di là dal Dolo, il torrente che insieme al Dragone faceva da confine ai miei giri da ragazzo. Il dialetto che si parlava in casa (il testo di Amminramp è una filastrocca che recitavo con mia nonna e con mia madre); il Maggio , canto epico delle nostre valli che gli Ust citavano e rielaboravano ( Maggio che da piccolo andavo a vedere, con i miei, ci vado ancora, nelle spianate in mezzo ai castagneti, per seguire le storie intricate di re spodestati, di delitti fratricidi e tradimenti, vicende ariostesche di mostri e foreste, cantate in ottava mentre si combatte all'arma bianca in costumi poveri da pupi in carne e ossa).

Nessuno l'ha mai detta e messa in musica in quel modo, la mia terra (che dire mia sento già un'usurpazione). Terra che si ama e si rimpiange, sazia e disperata. Più in alto spopolata e scancherenta, periferica.

Un insegnamento: lo sguardo duro, disilluso, sul proprio stesso amore; non mi sento mai a posto. Essere spiazzati di fronte al mondo, tenere bene a mente le radici – cos'è questo discorso, per me che la mia terra non posso dirla mia, che ho sempre sofferto del mio sguardo estetico sulle cose come di un'inadeguatezza e una mancanza, e non potrei credo scrivere una riga che non parlasse d'Appennino, ma allo stesso tempo in questo Appennino non riesco a stabilire il mio posto, perché ho spezzato la catena che dai nonni padre mezzadri e passa attraverso i miei contadini, e che i miei fratelli continueranno: quello piccolo fa il boscaiolo, tra l'altro, e sta mettendo a posto una casa per suo conto; l'ho visto fare retromarcia con un trattore a cui erano attaccati due rimorchi carichi di legna, calcolando gli angoli ei movimenti, entrando a gomito in un vicolo che sembrava più stretto del trattore stesso; d'inverno guida lo spazzaneve. Mio fratello di mezzo sta nel bosco tutto il giorno e ne ricava di che vivere, perché di mestiere fa il tartufaio. Io sono il primogenito e ho interrotto la catena.

Saperla coltivare, la terra che calpesti, saper allevare gli animali, saper guidare un trattore, saper riparare un trattore, saper tirare su un muro, rifare un tetto, costruire un armadio. Lo sguardo estetico sull'Appennino per cui mi sono sempre intimamente dovuto vergognare, l'incantamento... Ferretti e Zamboni mi hanno mostrato che si poteva farne arte – e in quel che facevano, destinato a rimanere, sentivi salda la presa sulla terra, lo sguardo lirico ma anche le cose .

Si può. Trovare un'epica, un immaginario, che siano nostri, e siano veri. Stare lontani dall'effimero.

Provincia di due imperi

Nel tempo mi sono fortificato in questo pregiudizio: che le cose quando vengono dalla provincia siano più forti, e meno effimere, appunto. Nel poco e nella rarefazione, nella costrizione a uno sguardo marginale, a una visione parziale e insisteta, a cui la provincia ti costringe c'è la possibilità di fare qualcosa di vero e di potente; mentre il caos attraente, le esperienze infinite e in fondo intercambiabili che il centro offre costantemente rischiando di rendere ogni tua scelta priva di passione, di concretezza; di verità, alla fine (l'ho detto, è un pregiudizio).

La provincia e la città; la sostituzione irreversibile del mondo di prima con il mondo di poi, in quei decenni – ho fatto in tempo a vederne una coda, da bambino – in cui la montagna era ancora nel mondo di prima, e la città inesorabilmente premeva e spingeva nel mondo di poi.

Provincia emiliana, ma più precisamente, mi viene da dire provincia di montagna.

Non la provincia grassa e larga di orizzonte del peregrinare on the road , fra la via Emilia e il West, quella che poi arrivò Ligabue a mettere in caricatura. Una provincia austera, sempre scomoda, che è in tutt'altro spazio, geografico e artistico.

(Appena più a est, in uguale potenza anche se in modi del tutto diversi, pensa a quanto si sente che c'è l'Appennino in Vasco. Che rampa su per il crinale, va sul Cimone e al Lago Santo, e mette su Instagram il suo videno per dire orgoglioso: “Guarda dove t'ho portato! ”).

(La provincia di Vasco Rossi: quel preciso dove finiscono gli anni Ottanta dei fratelli maggiori e dei grandi – che adolescenti non ti sono mai sembrati, sdentati e con la faccia furba, cugini più sgamati, amici sfuggenti – e cominciano i Novanta, dove tutto si semplifica e diventa più dimesso, meno mitologico e più autentico – credi fortemente o t'illudi – e disperato altrettanto ma in più solitario, non visibile. Il parco Novi Sad da presente, verso la stazione delle corriere a Modena, risalire in Appennino, essere soli a pensare in cosa saranno persi gli altri, adesso, in quali pomeriggi di sole, ma quel punto per come si è rotto dentro l'animo di tutti occhi limpidi, quella verità e quello stupore attonito che c'è nelle canzoni di Vasco, che sembra comprendere tutto per pura emozione animale, infallibile. Darei un braccio per scrivere quel romanzo? Ma non si può dire con tante parole quello che qualcuno ha già detto miracolosamente con la sintesi. Il problema forse è quello lì).

E poi gli Üstmamò, da Villa Minozzo s'è detto, che erano la parte anche pop e bizzarra. Negli Üstmamò troverò sempre la grazia, la dolcezza, l'energia delle giornate frizzanti in cui dalle mie parti il ​​cielo è blu e pulito dal vento, e il sole autunnale scotta senza avviso, sono felici anche le foglie secche.

Per nostra fortuna siamo di qua

E infine oggi, salendo la via, Emiliano Mazzoni (prodotto proprio da Luca Rossi degli Üstmamò), che da lassù a Piandelagotti dove sta, in cima alla Val Dragone, scrive canzoni che son storie per immagini profonde e stralunate, in cui l'Appennino è ovunque, girato con gli scarponi ai piedi e con la testa fra le nuvole, sicché sei lì e insieme altrove; sei alla fredda e da solo, d'inverno, quando la brina s'accumula fino a sembrare neve, sul limitare di quei pascoli in disuso col filo spinato arrugginito, la boscaglia che attacca a riprendersi il prato e quei primi faggi maculati e goffi, un po' rachitici e domestici; eppure vicino e al di là ci sono le Apuane e senti già la possibilità del mare.

Passo delle Radici

Ho smesso poi da solo di farmi le punte in testa, da un bel po' di anni, e senza prendere dei soldi da mio nonno mamma, che nel frattempo è morto senza aver mai visto piovere maccheroni.

Ho fatto anche pace con quell'adolescente ingenuo in tutto, che aspettava sotto il palco dei Csi, che li ascoltava estasiato e li guardava come un esempio. Li ascolta, li aspetta (e chissà, fra poco ancora sotto il palco), e li guarda come un esempio anche il cinquantenne che sono diventato, e si prepara perché vorrebbe un giorno, prima della fine, risolvere la sua questione con le radici e poter dire un po' rasserenato non che possiede la sua terra, ma che le appartiene.


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