Il 3 agosto 2025, all’età di 84 anni, ci ha lasciato, dopo aver dedicato molto all’insegnamento e alla scrittura nella sua città di Omegna, offrendoci un patrimonio prezioso da non dimenticare. Il suo lavoro, tra scuola, lingua e immaginazione, ci ricorda che l’insegnamento può essere anche uno spazio creativo, critico e condiviso
Qualche anno fa, quando ho iniziato a insegnare nella mia scuola nel quartiere Centocelle, a Roma, una maestra, andando in pensione, mi ha lasciato tutto ciò che restava nel suo armadio. Tra i vari materiali, ho trovato un libro: la prima edizione Einaudi del 1986 de I Draghi locopei. Imparare l’italiano con i giochi di parole, di Ersilia Zamponi.
Il libro mi ha subito incuriosito e ha rappresentato una risposta a quel bisogno di strumenti e riferimenti che ha chi comincia a lavorare a scuola: il racconto di un’esperienza in classe e, al tempo stesso, un repertorio di giochi linguistici da cui poter attingere. Già la prima proposta apriva in modo semplice e spiazzante: «Cerca gli anagrammi del tuo nome e cognome; se ne trovi più di uno, li puoi comporre in modo da formare un testo». Il titolo stesso del libro è un gioco: I Draghi locopei nasce per metamorfosi anagrammatica dalla frase “giochi di parole”.
«Il nome draghi – spiega Zamponi – è ricco di molteplici simbologie ed evoca un mondo fantastico di miti, fiabe, leggende; l’aggettivo locopei, parola inventata, è privo di significati e quindi – potenzialmente - li contiene tutti.»
Logogrifi, pseudonimi, acrostici, indovinelli: sono alcuni degli strumenti che Zamponi propose, a partire dal 1982, durante i pomeriggi scolastici a una classe della scuola media a tempo pieno “Gianni Rodari” di Crusinallo, frazione di Omegna.
Un filo sottile lega Zamponi e Rodari alla loro città natale, Omegna, e tesse un discorso che si snoda e trae ispirazione dalla pubblicazione della Grammatica della fantasia (1973), passando per la rubrica settimanale di Giampaolo Dossena su Tuttolibri e attingendo anche alle sperimentazioni letterarie di Franco Fortini e Raymond Queneau.
Non è un caso che la scuola di Crusinallo, che lei e le insegnanti con cui collaborava si impegnarono ad aprire, porti il nome di Rodari, figura che per loro rappresentava «un punto di riferimento assai importante nel lavoro educativo». Né è casuale il luogo in cui prese vita il suo percorso: Crusinallo era infatti un quartiere operaio, distintosi nella Resistenza per il contributo di lotta e il numero di caduti, in un territorio dove pure la liberazione fu movimento di popolo.
Come prima preside dell’istituto, introdusse il tempo pieno, ma lasciò presto quel ruolo per tornare a insegnare. Fu proprio nel tempo pomeridiano, “gratuito” e libero dai vincoli della didattica mattutina, che avviò la sperimentazione triennale raccontata nel libro: un laboratorio creativo e ludico, dove ragazzi e ragazze potevano esplorare la lingua in modo non strumentale.
«Nei giochi di parole il gusto che si prova assume molteplici forme – spiega – la soddisfazione per una invenzione linguistica che piace, l'emozione dell'intuire e dell'indovinare, la sorpresa di una combinazione casuale, la sfida dell'enigma o la trasgressione del nonsense, la spensieratezza della comicità, l'intelligenza dell'ironia. Giocando con le parole, i ragazzi arricchiscono il lessico; imparano ad apprezzare il vocabolario, che diventa potente alleato di gioco; colgono il valore della regola, la quale offre il principio di organizzazione e suggerisce la forma, in cui poi essi trovano la soddisfazione del risultato».
Il materiale di documentazione di quell’esperienza venne ciclostilato e inviato a Umberto Eco, che ne colse subito il valore e ne scrisse nella sua rubrica La bustina di Minerva su l’Espresso, il 23 giugno 1985. Quel testo diventò poi la prefazione dell’edizione Einaudi dell’anno successivo, casa editrice che pubblicherà poco dopo, nell’88, un secondo libro di Zamponi con Piumini: Calicanto. La poesia in gioco.
Il valore di questo lavoro sta anche nel fatto che a raccontarlo sia una voce femminile, rara nella letteratura pedagogica italiana. Le ricche esperienze didattiche di quegli anni sono rimaste spesso senza voce, perché raramente le maestre che le realizzavano hanno avuto l’opportunità di condividerle.
Zamponi compie un gesto prezioso: documenta, apre le porte della sua aula allo sguardo altrui, espone il proprio lavoro alla critica, ma allo stesso tempo lo offre generosamente a chiunque desideri prenderne spunto. Riesce così nella doppia sfida di mettere al centro chi apprende e dare dignità e valore al lavoro di chi insegna.
Apre uno spazio dove ragazzi e ragazze possono giocare con la lingua senza la pressione del voto o del rendimento, ma dove anche chi insegna può sperimentare tecniche nuove, senza il vincolo dei programmi ministeriali. La sfida, la spensieratezza, l’ironia che alimentano l’interesse e la motivazione in classe non sono puro intrattenimento.
Zamponi dimostra una profonda conoscenza dei principi epistemologici e delle strutture della lingua. Il valore che attribuisce al lavoro dei ragazzi e delle ragazze emerge anche in altre attività: la creazione di una piccola casa editrice, le Edizioni del Falco, e della cooperativa scolastica Libromagia, curate interamente dalla classe.
Questi progetti permettevano di scrivere, pubblicare e condividere racconti e poesie, o di organizzare momenti di promozione della lettura. Attraverso queste esperienze, Zamponi offrì loro un terreno di autonomia e responsabilità, costruendo una scuola viva, dove la lingua non era solo oggetto di studio ma diventava strumento di scoperta, relazione, costruzione del sé e del pensiero critico.
Il 3 agosto 2025, all’età di 84 anni, Ersilia Zamponi ci ha lasciato, dopo aver dedicato molto all’insegnamento e alla scrittura nella sua città di Omegna, offrendoci un patrimonio prezioso da non dimenticare.
Oggi, in un clima che prova a restaurare un impianto trasmissivo e autoritario, si rischia di cancellare la ricchezza di esperienze come la sua. Si fa strada l’idea, tanto nostalgica quanto infondata, che si impari meglio attraverso la fatica e la coercizione, e che il principale valore nello studio della lingua consista nell’apprendimento delle regole grammaticali intese come norme che disciplinano il comportamento e formano il carattere.
Ma quel modello, solo in apparenza neutro, era e rimane tutt’oggi selettivo, pensato per chi possiede già strumenti culturali, sociali e linguistici favorevoli.
Le pratiche di Ersilia Zamponi ci ricordano invece che la lingua può essere un terreno aperto e condiviso, anche per chi non conosce l’italiano, come gli alunni e le alunne con background migratorio presenti nelle nostre aule. Un orizzonte di possibilità dove ciascuno può imparare a pensare, esprimersi e sentirsi parte di una comunità attraverso la curiosità e la libertà di esplorare.
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