Nel 2015, l’anno dell’Expo a Milano, io avevo venticinque anni, lavoravo nella trattoria dei miei genitori e non avevo – allora come adesso – alcuna voglia di parlare di cibo. Nei lunghi sei mesi di apertura dell’esposizione, il cui tema prescelto era Nutrire il pianeta, energia per la vita, ricordo di aver cercato in ogni modo di non metterci piede.

Durante i preparativi mi ero trasferita a Canterbury per “imparare l’inglese”, ottenendo l’unico risultato di mettere su cinque chili di hamburger e patate dolci e riuscire a imbastire brevi conversazioni sulla spesa con un’amica turca. Mentre per non rischiare di incapparvi nei mesi estivi avevo avuto la brillante idea di affrontare insieme a un’amica la Transiberiana, partendo in blablacar verso la Romania e tornando da Pechino un mese e mezzo dopo con addosso l’odore appiccicaticcio di anatra alla griglia.

Tutta questa determinazione però non fu sufficiente e, prima di riuscire a farmi lasciare dal mio fidanzato dell’epoca, lui e i suoi amici mi trascinarono all’evento dell’anno: la grande fiera sull’alimentazione.

Expo 2015

La mia memoria, furbamente selettiva per non dire misera, non mi aiuta. Ricordo poco e niente di quel tardo pomeriggio. La fila per uscire dalla metropolitana, il mal di piedi, le signore col trolley, una lunga traversata tra padiglioni moderni e transenne, una gigantesca insegna del McDonald e, naturalmente, le luci stroboscopiche dell’albero della vita, il simbolo dell’Expo. Più fortunato della mia relazione e troppo difficile da smantellare, l’albero è ancora lì, un ammasso sinuoso di acciaio e legno in memoria del momento in cui Milano è diventata, forse, una capitale europea senza davvero esserlo.

Insieme a lui, altre architetture monumentali ci ricordano che le Esposizioni universali hanno toccato la vita di alcune grandi città e, naturalmente, di chi ci vive. Il defunto Crystal Palace di Londra, il padiglione principale per il primo evento di questo genere del 1851, che doveva sembrare una grande e leggerissima serra nei sobborghi sud della città.

La tour Eiffel del 1889, oggi immagine cartolina di Parigi insieme alla baguette e ai pittori di Montmartre, ma che durante la sua costruzione indignò la crème degli intellettuali francesi i quali lo definirono un orrido candelabro che minacciava il famoso buon gusto della nazione. L’Atomium di Bruxelles costruito nel 1958, un immenso geomag di barre e sfere d’acciaio, ancora oggi nel parco Heysel della città a rappresentare un macroscopico cristallo di ferro.

Esposizioni e gastronomia

Studiando questi inquietanti simboli di modernità, mentre mi apprestavo a pulire e riapparecchiare ogni sera i tavoli della trattoria dei miei, su cui per la prima volta plotoni di turisti poggiavano i gomiti sul tavolo esigendo del parmigiano da versare più o meno su tutto, ho capito che parlare di cibo non è una moda degli ultimi anni. E, per Milano nello specifico, ho capito che non è colpa dell’Expo se negli ultimi sette anni hanno chiuso quasi tutti gli orologiai, le botteghe di artigiani, i pellettieri e le cartolerie con gli scaffali di formica per lasciare spazio a un numeroso vertiginoso di ristoranti, pizzerie e franchising di hot dog e pancake. O perlomeno, non è colpa di quella del 2015.

Nei mesi scorsi, mentre scartabellavo bollettini e guide storiche durante la scrittura di una noiosa tesi di dottorato, ho scoperto che quasi ogni grande evento espositivo nazionale o internazionale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento ha avuto una sezione a tema alimentazione.

Le Esposizioni, dei giganteschi eventi moderni che sin dalla loro nascita mostrano al pubblico di massa il progresso tecnico e culturale di una o più realtà nazionali, con la volontà di aprire scambi commerciali con l’estero e nuove vie per l’imprenditoria, erano zeppe di gallerie dedicate a quello che oggi molti si ostinano a chiamare food.

Nel 1881 a Milano, per esempio, nella prima grande fiera dedicata all’industria nazionale dopo l’unità d’Italia, secondo i reporter del tempo vi erano intere sale consacrate alla dea Gola e al dio Ghiottone, fatte di piramidi di bottiglie di vermouth, champagne e vini pregiati, ma anche di uova di cioccolata, caramelle e confetti di ogni tipo, insieme a interi banconi che mettevano in mostra le migliori conserve e salse di produttori di tutta la penisola. O ancora corridoi imbastiti da sacche di farina e bacheche ricoperte di pacchi di pasta e pani con o senza lievito, «da viaggio e di fantasia», insieme a biscotti, torte e panettoni profumati.

Al lusso salutare di un cibo finemente preparato e confezionato, ora alla portata di tutti o quasi, corrispondeva già il lustro del packaging più fantasioso, dell’apparenza e delle vetrine colorate, in cui regnavano l’azienda torinese Cirio, con un sontuoso altare di passate e pomodori, che esportava già in molti mercati stranieri. Ma vi erano anche la mostarda cremonese, tripudi di cioccolati e dolcetti della scomparsa ditta Grassini, che per l’occasione aveva confezionato un grande mosaico che ritraeva re Umberto con delicati intarsi di confetti e zuccherini colorati.

I commentatori della guida ufficiale dell’evento tenutosi ai giardini di porta Venezia descrivono la passeggiata nella sezione alimentare come uno struscio paradisiaco, immerso in «una popolazione di panettoni milanesi, di pasticci, di zuccheri canditi, di panforti» tutti disposti accanto a tribù di salami, paste, farine prosciutti e zamponi, soffermandosi in particolare sullo stand sfarzoso dell’imprenditore di Treviso Giovanni Stucky, specializzato nei farinacei: «Tre statue che escono da fogliami e spighe formano il piedistallo, recando l’aratro, la falce e la ruota, simbolo della coltivazione dei grani, della mietitura e della lavorazione della pasta».

Oltre a pubblicizzare nuovi prodotti, figli delle moderne diavolerie tecniche e tecnologiche che il pubblico poteva osservare nella rumorosa galleria delle macchine, vi erano anche casi dichiarati di rebranding.

Il rebranding del vermouth 

Modello di questa operazione è il vermouth, vino aromatizzato inventato allo scadere del Settecento da un piemontese, che però, ancora un secolo dopo, faticava a vendere. Il motivo? Il suo nome.

In tedesco Wermut indica l’artemisia maggiore, la pianta da cui si ricava l’assenzio e nel corso dell’Ottocento viene pertanto associato alla scandalosa “fata verde”, liquore dalla nomea ambigua nei salotti dell’aristocrazia europea del suo tempo. Associato agli artisti e a uno stile di vita scapestrato, l’assenzio e la sua alta gradazione alcolica avevano spopolato, diventando una minaccia per i commercianti di vino – soprattutto francese – e di conseguenza l’oggetto di una vera e propria campagna diffamatoria che lo ritraeva sulla stampa come il simbolo di una vita degenerata, in cui regnavano gli istinti animali e la violenza.

Questa fama pericolosa compromette il mercato del vermouth, che i venditori italiani si vedono dunque costretti a cercare di allontanare con forza nella mente del pubblico dall’immaginario ricamato nella Ville Lumière, reinventandone in qualche modo l’identità. È così che sulle pagine delle cronache dell’esposizione la bevanda piemontese diventa una sofisticata “bibita mattutina”, glorificando le etichette illustrate volute dalla fabbrica milanese Branca, o la forma morbida delle bottiglie delle ditte Cinzano e Martini, tentando di rischiarare la reputazione del prodotto.

L'Integrale è una rivista di cultura gastronomica, che raccoglie saggi e narrazioni che partono dal cibo per raccontare luoghi, persone e fatti umani. Questo testo è estratto dal quinto numero, con contributi di Nadeesha Uyangoda, Ferdinando Cotugno, Tommaso Melilli, Diletta Sereni, Franco La Cecla, Dario De Marco, Gabriele Rosso e altri. È intitolato Straniero e indaga come il cibo dà forma al senso di appartenenza e a quello di estraneità, alle nostre radici e destinazioni.

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