Ad alcuni capita di riceverlo, a tutti gli altri capita di provare invidia per chi lo riceve. Chi rientra nella seconda categoria non invidia tanto il cibo (che è fonte di gioia, certo). Del pacco da giù si invidiano i gesti che ha compiuto chi l’ha composto. Il tempo speso per scriversi la lista – rigorosamente su carta – di quello che va comprato.

La briga che qualcuno si è preso nel fare mente locale: in questo caseificio prendo i formaggi, anzi questo formaggio nello specifico. Quest’altro lo fanno meglio qua. I salumi dal salumiere in piazza, girando l’angolo trovo la pasta fresca. Per i biscotti artigianali invece meglio in quella pasticceria lì, che però è chiusa al lunedì e tocca passarci domani.

La cura

È su questa grammatica della cura che si basa la malinconia di chi si trova un giovedì sera di fine mese con il conto agli sgoccioli e la stanchezza della settimana addosso a vagare con aria spaesata per le corsie del supermercato all’ora di punta, senza essere in grado di capire cosa serve per cena, optando alla fine per il sugo pronto e le mezze penne, che è una cena triste ma più triste è ricordare che qualcuno, in quel momento, sta aprendo il barattolo di sugo fatto in casa dalla madre, dal padre, dalla nonna.

Con quel sugo la pasta ha lo stesso sapore di quando si avevano otto anni e tutto si materializzava pronto e buonissimo, senza errori di cottura, senza Alexa a fare da timer.

Il pacco da giù è il modo che abbiamo trovato per descrivere una pratica che è una lettera d’amore e contemporaneamente un coagulo delle apprensioni genitoriali italiane. Una scatola di cartone che viene da giù (ma un giù che è una convenzione, perché può pure essere nord, est, ovest, anche se, a dire il vero, viene più spesso dal sud) e contiene teoricamente prelibatezze che “su” (questo “su” generico che spesso è la grande città del nord) non si trovano.

Non solo sughi fatti in casa, conserve, marmellate, ma anche orecchiette, focacce, taralli, formaggi freschi, limoni profumatissimi e arance ineguagliabili. Immancabile l’olio buono nella latta da cinque litri, a volte una bottiglia di vino o di liquore, molto spesso qualche dolce fatto in casa.

Secondo le testimonianze di ragazze e ragazzi provenienti da Sicilia, Campania, Puglia e Umbria ed emigrati a Milano, il pacco non arriva necessariamente con cadenza regolare ma ci sono delle regole non scritte che tendono a ripetersi. Quando non scendi da un po’, e per un po’ è presumibile che non scenderai, ecco che citofona il corriere. E allora ingaggi la coinquilina per portarlo su per le scale promettendole qualche ricompensa, in genere il formaggio meno gradito, o la sopressa che non mangi più da quando hai limitato il consumo di carne.

Arrivi in casa e lo apri. Scopri che ogni pacco da giù è diverso dal precedente ma ci sono alcuni elementi ricorrenti, ovunque esso sia stato progettato e riempito. Le scatolette di tonno per esempio: il tonno si trova ovunque ed è per definizione un prodotto industriale. Non c’è marca di tonno che non si trovi all’Esselunga, eppure le scatolette di tonno nel pacco da giù non mancano quasi mai.

Perché? Una teoria vuole che facciano da pluriball, riempiano i buchi. Ma è anche vero che i genitori non si curano di mandare solo cose speciali: serve qualche cosa che faccia da fondo alla dispensa, considerato che uno dei fini del pacco è di sfamare i figli lontani più a lungo possibile, sentirsi ancora necessari in una vita di cui si sa in fondo molto poco.

Fazzoletti e soldi

Un’altra stranezza: i fazzoletti. Questi arrivano soprattutto agli expat. In Inghilterra ad esempio i fazzoletti Tempo arrivano perché si teme che quelli d’oltremanica non siano soffici abbastanza. Oppure anche qui vale la teoria dell’elemento che serve ad ammortizzare i colpi: quelli reali del viaggio e quelli figurati di una vita spesa altrove. Chissà.

Altro elemento non comunissimo ma ricorrente: la busta dei soldi. Pare che la infilino le madri apprensive contro la volontà dei padri che si infuriano perché ormai esistono i bonifici e il pacco potrebbe andare perso.

Forse accade anche il contrario: che sia il padre a nascondere la busta. Oppure calzini e magliette tra un barattolo e l’altro. Si da fondo a ciò che resta dell’armadio dei figli, distaccandosene con fatica ma convincendosi che al figlio manchi proprio quella maglietta lì che usava per dormire quando andava in seconda liceo.

Gli eredi

Il pacco da giù ha degli antenati e dei discendenti. È la vera eredità gastronomica degli italiani che abbandonano un luogo per viverne un altro, una tradizione affettuosa che ha origine nella storia dell’emigrazione italiana. Prima erano cartoni con lo spago, oggi a chiuderli è lo scotch.

Ma internet è ormai affollato di servizi che permettono di ordinare pacchi da giù raffinatissimi eppure anonimi e standardizzati, nei quali si perde il vero senso di questa pratica. Perché sé è vero che il cibo come pochissime altre cose sa assottigliare distanze a volte emotivamente insostenibili – chi ha vissuto all’estero sa bene quale conforto sappia offrire un semplice pezzo di parmigiano – è però nella cura con cui le famiglie scelgono i prodotti e assemblano il pacco ad essere il vero movente. Si potrebbe addirittura dire che a goderne di più non è chi lo riceve ma chi lo prepara.

Nella scelta minuziosa della versione migliore di ogni alimento – quella più saporita, meglio realizzata, più durevole – c’è tutta una grammatica dell’amore che raramente si manifesta così puro e disinteressato. E infatti è sciocco ritenerla una questione di dipendenza dei figli dai genitori.

Cosa esprime

Ognuno sa procacciarsi il cibo e sa accontentarsene. Nessun genitore è però in grado di esprimere ciò che esprime con il pacco usando solo le parole. Una telefonata non vale come l’olio buono: la prima è l’amore detto e il secondo è l’amore fatto, quello dei gesti di cura. E se nella vita si cresce e ogni premura genitoriale finisce per apparire sempre più fuori luogo, il cibo rimane sempre zona franca.

Non si invecchia mai abbastanza per non meritare i propri biscotti preferiti. Non si è mai autonomi al punto da non voler tornare ad essere, anche fugacemente, solo e puramente figli. Il pacco da giù, con la sua storia di cura, tampona il senso di sradicamento che non è sempre volontario ed è spesso doloroso.

Non ne è la cura definitiva ma sa certamente alleviarne la fatica. Ed è bello pensare che quel “giù” generico voglia sempre dire casa, anche quando casa si è fatta “su”, e di certi sapori si è quasi persa la memoria senza perderne la nostalgia.

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