Sta succedendo questa strana cosa nei cinema italiani in quest’inizio di 2024, e cioè che film cosiddetti d’essai/di qualità/eccetera siano finiti ai primissimi posti della classifica. Ha cominciato Miyazaki con Il ragazzo e l’airone, e certo Miyazaki ha sempre parlato e ancora parla alle masse, non è tipo da cinemini, ma è anche certo che quest’ultimo (in tutti i sensi?) suo film non è esattamente Avatar.

Poi Perfect Days di Wim Wenders, altro autore cinéphile e per giunta con una storia (parlata pochissimo) di un tizio giapponese che di mestiere pulisce cessi pubblici a Tokyo e nel tempo libero rimira i raggi del sole fra gli alberi, legge, ascolta i Velvet Underground, mangia nei soliti due posticini, va all’onsen a lavarsi.

Due film molto belli (specialmente il secondo, per quanto mi riguarda) che evidentemente hanno parlato a molti. (E anche due film che segnano un grande successo per Lucky Red, distribuzione indipendente e, a suo modo, militante che da quasi quarant’anni – è nata nel 1987 – distribuisce soprattutto cinema d’essai/di qualità/eccetera e per la prima volta s’è trovata con due film al primo e al secondo posto tra i più visti. E ai primi posti è schizzato, quand’è uscita, anche la versione restaurata del Cacciatore di Cimino, sempre distribuita da loro. Che tutto questo sia successo nel 2024 e non, che so, nel 1995 è un dato quantomeno interessante, se non addirittura stupefacente. Ma ne riparleremo magari in riflessioni future. Chiusa parentesi.)

Il nuovo anno

Dunque, inizio d’anno cinematografico così, coi comici nostrani più o meno ridanciani (Alessandro Siani, Pio e Amedeo, Fabio De Luigi) che qualcosa ancora incassano ma arrancano, faticando a (ri)trovare il loro pubblico; o forse quel pubblico ormai è davvero andato altrove, sulle piattaforme o chissà dove, di certo non nelle sale.

Un inizio d’anno cinematografico in cui succede che di questi film – Miyazaki, Wenders – si parla, che li si usa anche come simboli, veicoli di messaggi, indirizzi di vita oltre che di cinema; cosa che una volta nelle sale accadeva, se non sempre molto spesso.

In particolare Perfect Days (arrivato ai 4 milioni: una cifra da noi esorbitante, per un film del genere) è stato preso per il film che ci dovrebbe indicare una nuova via, un po’ zen e un po’ decluttering (dalle cose ma anche dalle ambizioni); ho fatto una bella intervista con Wenders e anche per lui pensare, scrivere e girare questo film, nato sulla scia e l’eredità del sommo Yasujirō Ozu, ha significato questo, darsi una possibilità di vita più semplice, più vuota o quantomeno svuotata, anche se poi – sempre parole sue – nessuno di noi ci riesce mai.

Parlare di film

Insomma, di quei film si parla, ci si accapiglia addirittura, com’è successo con Barbie l’estate scorsa (e su Barbie adesso torno) e come sembra debba di nuovo succedere al cinema, se il cinema vuole tornare ad esistere. È un’analisi certo semplicistica, ma credo che le serie più viste – nel momento in cui scrivo: su Netflix Griselda, Un inganno di troppo, SKAM Italia, Berlino; su Prime Video No Activity - Niente da segnalare e Expats; su RaiPlay i colossi DOC - Nelle tue mani e Mare fuori – siano vissute sempre più passivamente, belle o brutte che siano, e che se ne parli poco o niente, insomma che non animino più nessuna conversazione a cena o sui social, anche (soprattutto?) nelle bolle; forse giusto SKAM, che però è arrivato alla sesta (molto bella come sempre) stagione, e ormai cosa c’è ancora da dire in proposito.

E invece ai film, che forse raggiungeranno numericamente meno pubblico (ma è poi vero?), si riconosce una rinnovata utilità, una nuova possibilità di crearehimo interesse collettivo, e anche tifo, polarizzazione.

Archiviati Miyazaki e Wenders (anzi, no: il secondo è ancora in classifica), adesso tocca a Povere creature! di Yorgos Lanthimos, già Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, proseguire la strada del film d’essai/di qualità/eccetera che insieme fa soldi e fa parlare, quella solita combo miracolosa che oggigiorno sembra avvenire sempre più spesso.

So che su queste pagine s’è già discusso criticamente del film, e io non sono qui per questo. Sono qui per (cercare di) dire perché di questo film si parla così tanto, perché sta creando appunto tifoserie opposte, è un capolavoro capace come nessun altro di raccontare il nostro tempo, no è sopravvalutato come tutti i precedenti film di Lanthimos; è umanissimo, no è freddo; è geniale, no è paraculo; avanti così da giorni, e andrà avanti – credo – ancora.

Un cineforum condiviso

Il punto non è il punto (pardon) critico sul film, anche se ovviamente è rilevante. È proprio vedere animarsi questo cineforum attivo e spalmato, questo ritrovato gusto per la visione e la condivisione, a volte anche della revisione (in ogni accezione), pure della divisione, perché no.

Lo chiamavano “esprit du temps”, oggi è detto “sentiment”, ed è il cinema a cavalcarlo, talvolta addirittura a indirizzarlo. Barbie, dicevo. Se c’è un indicatore di questo nuovo corso, probabilmente è il film di Greta Gerwig e il suo successo non solo monetario (1,4 miliardi di dollari di incasso globale) ma anche relativamente al suo piazzamento sulla mappa culturale e intellettuale.

Anche lì: è il film che parla delle e alle donne di oggi, no è una furbata aziendale; è un omaggio ai musical anni ’50 alla sophisticated comedy a John Waters, no è una pecionata che una volta sarebbe finita su Italia 1 alle quattro del pomeriggio; è un benchmark per la scrittura cinematografica degli anni a venire, no è un giocattolino che non supererà la prova del tempo; è geniale, no è paraculo (aridaje).

Bella Bexter

Anche qui, niente punto critico (peraltro già ampiamente sviscerato in queste pagine, anche da me). Ma l’idea che ci sia una nuova via per lo stimolo (da parte di un autore) e la discussione (attivata dagli spettatori) indicata, pensa te, dal cinema.

Barbie incarna il “sentiment” dell’anno, e anche per questo è venuto giù l’internet quando Greta Gerwig non è stata candidata agli Oscar come regista (però come sceneggiatrice sì) né Margot Robbie come attrice (ma da produttrice nella decina dei best movies).

Bella Baxter è “Barbie per chi ascolta Björk”, dice un meme che gira in questi giorni; e del fatto che abbia dei tratti in comune con la parabola raccontata da Gerwig – la bambola/automa che scopre la morte/il sesso e va nel mondo reale/si ribella al suo creatore – si parla fin da Venezia, dove già polarizzava i presenti (ma lì siamo quattro gatti, è sempre difficile prevedere quale e se ci sarà una conversione di quelle baruffe dopocinema nel mondo reale).

Ma di certo è un’altra figura simbolo che parla alla “conversazione”, come si dice oggi, a un pubblico anche giovanissimo («La figlia del mio compagno ha 14 anni e vuole andare a vedere solo Povere creature!», mi diceva un’amica l’altro giorno; e fino a cinque minuti andavamo tutti ripetendo che la Gen Z il cinema non sapeva neanche più cosa fosse), che offre stimoli – forse facili, ma in fondo più sofisticati di quanto si creda – sociologici, finanche politici, là dove la politica dorme.

Il ritorno del cinema

È tutto vero, è quello che il cinema è tornato (casualmente?) a fare e che si spera farà nei prossimi anni (ci basterebbe anche solo qualche mese ancora). Prometto che ne riparleremo qua tra qualche tempo, per vedere se questo pseudo-trend avrà una tenuta o se è un caso miracoloso e isolato, in questo bizzarro principio d’anno.

Però c’è un’altra cosa, e questa credo sia vera e già tangibile. Dopo annate di serializzazione del cinema (i cinecomic Marvel, eccetera eccetera), o di televisivizzazione di quella che una volta era considerata la qualità (penso all’Oscar per titoli come Green Book o CODA - I segni del cuore, a loro modo buoni film, ma davvero da Bellissimi di Rete 4), il cinema e suoi spettatori sembrano riscoprire la cosa che è, o dovrebbe essere, connaturata al cinema: la meraviglia.

La meraviglia intesa come emozione puramente relativa alla visione, come stupore per il cinema scritto e fatto in grande, dove tornano le grandi star (Emma Stone sembra davvero una delle poche dive da Vecchia Hollywood, per scelte di carriera e posizionamento tra pubblico e critica), che eccede in costumi, décor, musica, che racconta di bambole e donne, e anche di storie piccole però pensate in grande (da noi C’è ancora domani, di cui abbiamo parimenti discusso assai: anche lì tanto “sentiment” del tempo, ma anche, e soprattutto, il sentimento collettivo per lo scossone che ha dato anche visivamente Paola Cortellesi alla nostra addormentatissima produzione più popolare).

Io mi auguro che i Miyazaki e i Wim Wenders e pure i Lanthimos restino stabili al primo posto, ma soprattutto che il cinema, ovunque lo si guardi, continui ad essere questa cosa qua: un luogo di meraviglie. Come nel finale di un film, quello sì, sottovalutatissimo: Babylon di Damien Chazelle, un’opera che del cinema raccontava la morte già in culla (eravamo solo negli anni ’20), per poi lasciarci con un finale che stava lì a dirci che il cinema può esistere solo se ha ancora capacità e soprattutto voglia di meravigliarci. E allora esisterà sempre, con le sue bambole che scoprono, come noi che le guardiamo, la meraviglia del mondo.

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