Se pensate che la filosofia e i tatuaggi siano due cose distanti anni luce tra di loro, ebbene vi sbagliate. Questo libro di Federico Vercellone appena uscito da Bollati Boringhieri, Filosofia del tatuaggio, vi farà cambiare idea senza annoiarvi, anzi divertendovi e dandovi da pensare. E se immaginate di trovarci i nomi di Fedez e di Dybala, ma non quelli di Kant ed Hegel, ebbene vi sbagliate di nuovo.

Non perché Kant ed Hegel fossero tatuati come Fedez e Dybala (cosa impensabile alla loro epoca non solo per un serio filosofo, ma per qualunque individuo non fosse un delinquente, un marinaio o, se donna, una prostituta), ma perché Kant e Hegel non si limitano a parlare di tatuaggi, e incarnano due posizioni esemplari, seppure antitetiche, sul tatuaggio stesso. Due posizioni destinate a riproporsi ogni volta che si parla di tatuaggi.

Per tutti e due, certo, il tatuaggio è roba da selvaggi, da popoli primitivi. Del resto, il tatuaggio era tornato in occidente perché i marinai nei viaggi di esplorazione e poi in quelli di commercio erano entrati in contatto con le popolazioni di paesi lontani dove il tatuaggio era regolarmente praticato con finalità religiose o di identificazione tribale. Ma Kant condanna il tatuaggio come attentato alla bellezza del corpo, mentre Hegel lo difende come forma di autoespressione dell’essere umano.

Sfida alla bellezza classica

Kant è legato all’immagine classica del corpo dell’uomo. Non ci sarebbe niente di male a tatuarsi, scrive nella sua opera dedicata non a caso alla bellezza e all’arte, la Critica del Giudizio, se ad essere tatuato non fosse quel miracolo di perfezione che è il corpo umano (maschile e femminile). Siamo in pieno classicismo: l’ideale della bellezza è una statua greca, e per di più una statua bianca, candida come il marmo.

Gli animali hanno la pelle ricoperta di peli, quando non di squame o di scaglie. Solo nell’uomo la pelle risplende facendo vedere attraverso di lei la pulsazione della vita. Guai quindi non solo a colorare le statue ma anche a deturpare il candore della pelle. Non pensate che tutto questo lo abbiamo definitivamente superato, oggi che sappiamo che le statue e i frontoni dei templi greci erano regolarmente colorati e che a Roma antica si usavano tranquillamente marmi policromi.

Quanto questo paradigma sia stato introiettato lo dimostra il sottile disagio che proviamo quando guardiamo le statue tatuate di un artista contemporaneo, Fabio Viale, che dipinge tatuaggi su riproduzioni scala al vero di gruppi marmorei famosissimi.

Vedere il Laocoonte con le braccia istoriate “peggio del collo di Fedez”, o la Venere di Milo tatuata più delle spalle di Lady Gaga ci fa scorrere lungo la schiena un brivido sottile, indecisi tra la profanazione e la curiosità. E quando Vittorio Sgarbi rimproverava non so più quale fidanzata che si era fatta fare un tatuaggio perché «non si deturpa un’opera d’arte», era tutto dentro a questa linea di pensiero.

La tradizione classica, nel rifiuto di ogni alterazione del corpo “naturale” si è sposata con quella biblica e cristiana: «Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, Né vi farete segni di tatuaggio», prescrive il Levitico. E il risultato, paradossale, è che per noi il tatuaggio si oppone alla nudità. Un corpo tatuato senza vestiti non è un corpo nudo, perché il tatuaggio, osserva giustamente Vercellone, toglie al corpo l’universalità naturale e porta anche nel corpo, sul corpo, la singolarità dell’individuo.

My tattoos are my story

Qui entra in scena Hegel. Che condivide gran parte delle cose che abbiamo detto, salvo però rivendicare il diritto dell’essere umano a non restare quello che la natura lo ha fatto. L’uomo ha bisogno di raddoppiarsi, di imprimere nell’estraneo la propria personalità. L’essere umano si comporta così non solo nei confronti della natura inanimata, nella quale vuole imprimere il proprio sigillo. Fa altrettanto con il proprio corpo.

Altro che selvaggi: quelli che allungano i loro colli circondandoli di un numero sempre maggiore di anelli, o che deformano i lobi delle loro orecchie con enormi piattelli non vanno guardati dall’alto in basso: sono sul cammino della civiltà, che vuol dire precisamente esprimere la propria spiritualità, il proprio essere pensanti e attivi. Invece di chiedersi se il tatuaggio sia o no arte, proviamo piuttosto a vedere nel tatuaggio lo stesso impulso che porta l’essere umano a imprimere il proprio segno all’esterno, per esempio a disegnare un motivo ornamentale su una zanna di mammuth, o a tessere stoffe ricche di motivi astratti o vegetali.

Tatuaggio e ornamento sono sulla stessa linea, non solo perché qualsiasi immagine, anche mimetica, quando è dipinta sulla pelle assume il valore di un pattern, ma perché ce lo dimostrano, ancora una volta, i nemici dell’ornamento, che sono anche i nemici del tatuaggio. Adolf Loos, il grande architetto viennese che nel lontano 1908 spalanca la via al razionalismo di tanta edilizia moderna, nel suo Ornamento e delitto trova subito, come esempio indubitabile di inferiorità dell’ornamento, il fatto che a tatuarsi siano solo i selvaggi.

L’argomento, già dubbio allora, è certamente inservibile oggi, quando il tatuaggio ha smesso da tempo, direi con l’affermarsi dei movimenti post-sessantotto, hippies e punk, di essere un fenomeno marginale (soldati, marinai, criminali) per diventare ornamento di massa. La tesi di Hegel è stata virata tutta verso il tatuaggio come autoespressione. My tattoos are my story, e nel tatuaggio esprimo me stesso persino quando scelgo immagini stereotipate che troverò incise sulla pelle centinaia di miei simili, proprio come anche l’immagine più realistica nel tatuaggio perde il valore referenziale e diventa decorazione.

Quanto il tatuaggio sia legato all’auto espressività è confermato dal ribrezzo o vero e proprio orrore che ci fanno i tatuaggi imposti, non scelti ma coatti. Il marchio degli schiavi, il numero tatuato sul braccio dei deportati, o il nome del reato che una macchina infernale tatua sulla pelle del condannato fino a provocarne la morte nel racconto di Kafka Nella colonia penale.

Sulla propria pelle

Se il tatuaggio è frutto di elezione e non di imposizione, l’immagine o il motivo scelto hanno sì importanza per chi li sceglie, fino all’estremo di tatuare nomi e volti di persone amate o care, ma l’impressione è che il soggetto resti sempre un passo indietro, per importanza, rispetto al supporto su cui è inciso. Alla fine, quello che conta è che il tatuaggio sia sulla mia pelle. Mai come in questa circostanza sembra vero che il mezzo è il messaggio: la pelle, questo confine labile tra sé e il mondo, pronto però a dilatarsi e a rendersi poroso.

Quanto sia importante nella presa di coscienza dell’individuo, per esempio del bambino, l’esperienza della propria superficie corporea, lo ha sottolineato qualche anno fa lo psicanalista francese Didier Anzieu, parlando di Io-pelle, come suona il titolo del suo libro. E tra le molte funzioni di questo Io-pelle c’è quella di farsi veicolo della iscrizione di tracce, per esempio proprio i tatuaggi. La pelle, in un certo senso, si apre, diventa porta di accesso all’interiorità, dilata l’io, anche nella sua dimensione più fisica, corporea, verso la dimensione sociale, comunicativa. I simboli, un tempo lontani e remoti, si incarnano in noi stessi, li portiamo sulla nostra pelle.

E li conquistiamo a prezzo di dolore. Non ho idea di quanto sia doloroso un tatuaggio o un piercing, forse non molto. Ma nell’immaginario il tatuaggio resta una dimostrazione di coraggio, di sfida, e spesso viene collegato a passaggi importanti nella vita del singolo. Certamente assume spesso questo valore nella scelta dell’adolescente. Può sembrare strano, vista la sua diffusione, ma al tatuaggio resta legato, parallelamente all’enfasi posta sulla propria persona, il sapore della polemica contro le consuetudini sociali, e perfino quando tutti si tatuano il tatuaggio può portare con sé lo stigma dell’autoesclusione.

Anche perché la considerazione che magari pensavamo desueta del tatuaggio come indice di devianza, asocialità e marginalità può resuscitare non solo nelle remore di qualche genitore disorientato dalla scelta del figlio/figlia di farsi un tatuaggio o un piercing, ma anche nelle pieghe della comunicazione sociale. L’avvocata Annamaria Bernardini De Pace, parlando delle ragazze che hanno interrotto la ministra Roccella al Salone del libro, qualche giorno fa, ha esordito, lei che era sul palco, dicendo «erano tutte tatuate».

© Riproduzione riservata