Aggiornamento 20 ottobre 2025 – Richard Linklater riceve oggi alla Festa del Cinema di Roma il Premio alla Carriera, consegnato da Marco Bellocchio, e presenterà al pubblico Nouvelle Vague, uno dei titoli più applauditi dello scorso Festival di Cannes. Noi ne avevamo scritto qui. 


Non si scherza coi miti. Per tre giorni resterà esposta a Cannes la leggendaria sceneggiatura di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), che verrà clamorosamente battuta all’asta da Sotheby’s il 4 giugno a Parigi.

Dell’opera prima di Jean-Luc Godard, considerata il manifesto della Nouvelle Vague, il prezioso fascicolo contiene in realtà solo i dialoghi dei primi 14 minuti.

I rimanenti, si suppone, furono probabilmente annotati di giorno in giorno dal critico dei Cahiers du Cinéma che finalmente diventava regista sui tavolini del Café Dupont Montparnasse, la sua base operativa.

L’impatto eversivo del film, che ha insegnato a generazioni e generazioni, e ancora insegna, a scardinare le regole del cinema classico, gli costò alla sua uscita, nel 1960, l’accusa di immoralità e il divieto ai 18 anni. Soggetto di Francois Truffaut, regia di Godard, scenografie di Claude Chabrol:  À bout de souffle riuniva tre mostri sacri (tutti provenienti dalla redazione dei Cahiers) e trasformò il pugile Jean-Paul Belmondo in una star internazionale.

Per rispetto a una pietra miliare, privilegio qui Nouvelle Vague di Richard Linklater, che ricostruisce con passione cinefila la genesi e i venti stupefacenti giorni di riprese (!) di quel capolavoro, sulle due regie femminili che lo affiancano nel concorso cannese. Il giapponese Renoir, secondo film di Hayakawa Chie, finirà nel Palmarès, e ne riparleremo. Una delusione cocente arriva invece da Die my love di Lynne Ramsay, strepitosa autrice britannica questa volta irriconoscibile. La sua protagonista Jennifer Lawrence, per quanto in versione survoltata, potrebbe però candidarsi al premio per l’interpretazione.

Gli interpreti francesi di Nouvelle Vague invece non sono celebrità, ma ci immergono in un’epopea artistica e culturale irripetibile, che il remake di Jim McBride del 1983 con Richard Gere (Breathless) e il rozzo biopic caricaturale di Michel Hazanavicius con Louis Garrel (Il mio Godard, 2017) non avevano nemmeno sfiorato. Bianco e nero, ovviamente, perché come dice spiritosamente Linklater «è la storia di Godard che gira À bout de souffle raccontata con lo stile e lo spirito di Godard che gira À bout de souffle». Il film è una miniera di aneddoti, informazioni e succulente curiosità.

Godard (Guillaume Marbeck) ha trent’anni, il ventottenne amico Truffaut ha appena trionfato a Cannes con I 400 colpi e lui scalpita perché «sono l’ultimo dei Cahiers a dirigere». Non è il santino di un Genio, ma l’avventura, narrata con rispettosa ironia, di un rottamatore-costruttore che parla, come il suo cinema, per assiomi oracolari. «Quello che serve per fare un film è una ragazza e una pistola». Con l’amico pugile Belmondo (Aubry Dullin) ha girato un “corto”, ma gli ha promesso un film vero. Nella redazione dei Cahier tutti i protagonisti della “nuova onda” accolgono un Roberto Rossellini- il loro Nume tutelare- affamato e squattrinato.

Qualche dettaglio sfugge, nella ri-creazione di quella famiglia allargata di intellettuali: una Juliette Gréco rimpolpata col botox è improponibile. Ma la Jean Seberg di Zoey Deutch, la vera star Usa dalla zazzera bionda reclutata per puro miracolo, è quasi commovente. Da Otto Preminger e da Bonjour Tristesse si trova catapultata in un nido di matti e in una trama che le sembra ‘squallida’. Il direttore della fotografia ha girato solo reportage di guerra: «Voglio un tournage sauvage», gli dice Godard, niente luci artificiali. E per girare in strada lo seppellisce in un carrettino coperto, perchè la vita va ripresa com’è. Belmondo è alle prime armi, ha appena finito la naja in Algeria, ma la regola aurea dell’uomo che ha rivoluzionato il cinema è «non girare mai più di due ciak». Quasi sempre "è buona la prima”.

Nei primi giorni le riprese durano appena due ore, scaraventando nel panico il produttore amico Georges de Beauregard. Godard dà lo stop: «Per oggi ho finito le idee». Oppure: «Basta, adesso ho fame». A due passi dalla loro location Robert Bresson sta girando il suo Pickpocket, e si cita la celeberrima frase di T.S.Eliot che resterà un caposaldo evergreen anche per il cinema: «I poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano». Una battuta originale – e iconica- godardiana suona invece: «Stare da soli significa farsi delle domande». Seberg e Belmondo, su richiesta del neo-regista, giocano a citare le migliori battute di Humphrey Bogart. Perché sarà quello il modello cui ispirare il fuorilegge irriverente Michel Poiccard, col suo tragico finale. E Godard stesso deve prestarsi per il cameo del testimone, con il giornale in mano, che inizialmente era affidato a Francois Truffaut. Tutto in casa, tutto tra affini e sodali. Tante cose che non sapevamo. In venti giorni e con quattro soldi. E l’autostima del debuttante regista, perfettamente cosciente di non girare una inezia, ha proporzioni ciclopiche: «Come diceva Leonardo Da Vinci, l’arte non è mai terminata, solo abbandonata».

Forse è un film da cultori, ma è un amarcord struggente e una full immersion cinefila in quei venti giorni che se non sconvolsero il mondo, come i dieci giorni della Rivoluzione d’Ottobre glorificati da John Reed, hanno prodotto nel cinema uno scossone non molto diverso.

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